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C’è un pregiudizio invincibile, nel dibattito pubblico. Lo conosciamo: si chiama mafia. Basta la parola e si paralizza il confronto. Segue un altro insuperabile moloch: lo spauracchio della corruzione. Due totem che segnano la fine di ogni discorso. Il gioco è semplice: minacci l’avversario politico di voler fiancheggiare i mafiosi o favorire i corrotti ed è fatta. Vale anche per il nuovo codice degli appalti, strumento concepito anche per la realizzazione del Pnrr. Martedì il governo ha dato il definitivo via libera alle nuove norme sulle opere pubbliche. Subito dopo è intervenuto, con una sequenza di interviste a giornali e tv, il presidente dell’Autorità anticorruzione Giuseppe Busia: ha reso pubbliche le perplessità espresse nelle settimane precedenti al governo: «Semplificazione e rapidità sono valori importanti, ma non possono andare a discapito di principi altrettanto importanti come trasparenza, controllabilità e libera concorrenza». E poi, a proposito della norma che consente l’affidamento diretto, senza gara, per opere dal valore inferiore a 150mila euro, ha aggiunto: sotto quella cifra «va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato: è un problema, soprattutto nei piccoli centri». La Lega ha reagito subito: ha difeso quello che ha ribattezzato “codice Salvini”, in omaggio al Capitano e ministro delle Infrastrutture: «Gravi, inqualificabili e disinformate dichiarazioni di Busia: se parla così di migliaia di sindaci e pensa che siano tutti corrotti, non può stare più in quel ruolo», ha tuonato via Bellerio.
Insorgono le opposizioni, innanzitutto il Pd. Andrrea Orlando affida a twitter il proprio lapidario commento: «Il 98% delle opere pubbliche, in base alle modifiche volute dal governo, sarà realizzato senza gara. Un enorme favore alle mafie». In un’intervista al Fatto quotidiano, Roberto Scarpinato, ex pg di Palermo e oggi senatore M5S, rincara la dose: il codice degli appalti «legalizza la nuova tangentopoli». Ma nel pomeriggio di ieri è arrivata una distensione: Matteo Salvini fa sapere di essersi «messaggiato» con Busia e che «infatti», da parte del presidente Anac, «c’è stata un’inversione di marcia». La crociata leghista contro l’authority anticorruzione per ora è sospesa. E a smorzare la polemica contribuisce anche la premier: «In Consiglio dei ministri abbiamo approvato la modifica del codice degli appalti. La finalità è banale: fare le opere» e in tempi brevi. «Ho letto le critiche sull’innalzamento della soglia degli affidamenti a 150mila euro», aggiunge poi Giorgia Meloni con spirito meno pacificatorio, «ma la soglia è stata portatalì dal Conte 2 e dal precedente esecutivo», cioè da Draghi.
È un dibattito prevedibile. E limitato. Si parla solo in termini di possibile corruzione. E, da parte dell’opposizione, di sostanziale complicità della maggioranza con i nuovi corrotti. Accusa che ha un potenziale distruttivo. Ma anche il potere di oscurare i veri problemi. Perché con le modifiche al codice degli appalti varate da Meloni ma, effettivamente, messe a punto dal Consiglio di Stato su impulso di Mario Draghi, i problemi ci sono. Sono legati alle scadenze compulsive del Pnrr. Ma non possono essere ridotti alla solita contrapposizione fra “legalitari” e “impuniti”. Con le riforme introdotte negli ultimi anni, prima ancora delle ultime norme sugli appalti, si semplifica fin troppo il processo amministrativo. Si limita il controllo giurisdizionale sui contratti fra Pa e privati per l’affidamento di opere o servizi. Se n’è parlato poco. Ma i magistrati, gli avvocati e in particolare le associazioni degli amministrativisti, Unaa e Siaa, lo denunciano dal 2020. Poco si è detto sulla modifica che ha consentito, in caso di accoglimento del ricorso, di sostituire la riassegnazione dell’appalto col mero risarcimento del privato a cui, in base alla sentenza, andavano aggiudicati i lavori. Costi raddoppiati per la collettività a fronte di un ridotto controllo sulla qualità delle opere.
Aspetti ignorati dal dibattito mainstream. Perché tecnici. Incompatibili con la tradizionale semplificazione sui rischi di infiltrazioni mafiose e corruttive. Il dibattito è sempre inquinato dal moralismo. Dal pregiudizio nei confronti degli amministratori e della politica in generale. E se davvero si può muovere una critica a Busia, gli andrebbe contestato il ricorso alle solite comode semplificazioni, senza timore di mortificare la funzione dei sindaci: «Sotto i 150mila euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato: è un problema, soprattutto nei piccoli centri», ha detto a proposito della norma che consente l’affidamento senza gara. Frasi che sminuiscono l’immagine degli amministratori locali. E, nella contraerea subito attivata dalla Lega, almeno una replica pare aver colto nel segno: il viceministro delle Infrastrutture Edoardo Rixi, il numero due di Salvini, ha comprensibilmente rimproverato a Busia una «logica di deresponsabilizzazione che rischia di delegittimare il lavoro svolto ogni giorno dalle Pa nella gestione dei contratti pubblici». Delegittimare con approccio moralistico deresponsanbilizza, sminuisce, le classi dirigenti. Non è un caso che Busia abbia iniziato a corregerre il tiro proprio a partire da lì, quando ha precisato che, per lui, «i sindaci oggi sono degli eroi, svolgono una funzione essenziale». Il presidente dell’Anac solleva un allarme condivisibile quando avverte, come ha fatto in un’intervista a Repubblica, che «opere veloci può voler dire poca trasparenza, poca concorrenza, poca qualità». Esattamente come i processi amministrativi veloci introdotti col covid pregiudicano il controllo sulla qualità delle opere, prima ancora che sulla legalità. Discutere senza slogan aiuterebbe. Ma anche stavolta ha prevalso la tentazione di sedurre l’opinione pubblica con il moralismo.