Il mio primo contatto con Silvio Berlusconi risale all'autunno del 1980. E fu una sua telefonata, da editore del Giornale, che mi chiedeva un intervento sul direttore Indro Montanelli, al quale giustamente non osò rivolgersi di persona sapendo che, dato il tema, sarebbe stato mandato a quel paese. Anzi, lo avrebbe indotto a fare l'opposto, giusto per dimostrargli di essere autonomo, il vero padrone del giornale che gli aveva dovuto cedere per non cadere in depressione - lui, poi, che ci andava spesso di suo - ad ogni scadenza degli stipendi alla redazione.Terrorizzato da un colloquio con Flaminio Piccoli, che da tempo si doleva degli articoli di Montanelli sulla Dc, Berlusconi mi disse che aveva acquistato "molto volentieri" il Giornale ma non per smettere di fare l'imprenditore, come invece rischiava se Indro avesse continuato a sfottere l'allora segretario democristiano. Di cui proprio quella mattina Montanelli aveva scritto, in uno dei suoi quotidiani e urticanti Controcorrente, che in una riunione di amici si era scontrato con tutti a tal punto da «perdere, poverino, anche quello che non ha: la testa». Il guaio, da me nascosto al mio interlocutore al telefono, era che di quella riunione di corrente, informato da un giovanissimo e spiritoso Pier Ferdinando Casini, che sapeva imitare Piccoli alla perfezione, fossi stato proprio io a riferire a Montanelli, facendolo felice come una Pasqua per avergli dato lo spunto del corsivo di giornata.Riuscii a mantenere la promessa a Berlusconi di fare "ragionare" Montanelli forzando un po' quello che l'editore mi aveva detto e spersonalizzandolo. Raccontai al direttore, in particolare, di un Piccoli furente e al tempo stesso umiliato con gli amici da quel Controcorrente per la figura da matto che gli aveva fatto fare nel partito. Montanelli, compiaciuto dell'effetto delle sue parole, cedette a quel misto che conoscevo bene e ne faceva un vanitoso e al tempo stesso un generoso, per cui ricorse al plurale e mi disse: «Franceschino, almeno per un paio di mesi, lasciamolo stare in pace». Ciò mi permise di vendere a Berlusconi una "tregua" di cui l'editore mi fu grato passando da un rapporto, diciamo così, generico all'amicizia.Il primo TgQuando Enzo Bettiza e io, nel 1983, lasciammo il Giornale in dissenso dalla linea contro Bettino Craxi adottata da Montanelli, che ce la spiegava dicendo che i nostri lettori non avrebbero mai condiviso l'appoggio ad un socialista, il craxianissimo Berlusconi si tenne alla larga dallo scontro. Ci fece telefonare da comuni amici per rammaricarsi della situazione e spiegare che un suo intervento avrebbe complicato, non risolto la vertenza. Aveva perfettamente ragione. E noi trovammo rifugio altrove: nel gruppo editoriale di Attilio Monti. Dal quale tuttavia Berlusconi mi prelevò dopo qualche anno dandomi la direzione prima editoriale e poi responsabile di Videonews e, conseguentemente, del primo telegiornale della Fininvest. Che si chiamava Dentro la notizia, traduzione italiana di una celebre testata televisiva americana, e veniva registrato mezz'ora prima di andare in onda. La Tv commerciale non disponeva allora della diretta a livello nazionale.Mi colpì, in quell'esperienza, il disinteresse politico di Berlusconi per ciò che faceva il suo primo telegiornale. Altissimo invece era il suo interesse per come i conduttori si vestissero e parlassero. Ed enormi la sua comprensione e generosità per chi avesse problemi, diciamo così, contrattuali. Per una celebre inviata che non riuscivo a far partire all'improvviso per un servizio, o che nelle trasmissioni scambiava disinvoltamente i disegni di legge con i decreti legge o viceversa, e le mozioni con le interrogazioni, il buon Berlusconi evocava sempre come giustificazione quello che lui chiamava "star system", fra i sorrisi anch'essi comprensivi di Fedele Confalonieri. E raccomandò comprensione, dicendo che «non saremmo caduti per questo in miseria», per un telecronista con doppio contratto che aveva l'abitudine di farsi rimborsare le spese delle sue trasferte allegando fotocopie di ricevute i cui originali erano usati per l'altro giornale per cui lavorava. Mi resi conto così che tutti, proprio tutti, fossero in grado di raggiungere l'editore e, in qualche modo, di approfittarne. Col tempo, in verità, non sarebbero stati più tutti, essendo cresciute le sue aziende, e anche le sue frequentazioni.Mani PuliteQuando ero ancora alla direzione del Giorno, dove nel 1989 ero approdato dall'allora Fininvest, e scoppiò a Milano, quasi come prologo della successiva tempesta giudiziaria di Mani pulite, la crisi della giunta comunale guidata dall'amico Paolo Pillitteri, ero nella tribuna d'onore di San Siro accanto a Berlusconi che, nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo della partita, firmava autografi ad una processione di tifosi che gli sfilavano davanti con un biglietto della partita, un giornale, una cartolina, una foto, un'agendina.Allora gli chiesi - come ho scoperto, leggendo l'Espresso diffuso domenica scorsa con la Repubblica, che in quel periodo accadde anche all'allora direttore della Stampa Ezio Mauro in un incontro conviviale - se tutta quella popolarità non lo invogliasse a candidarsi a sindaco di Milano. Ci rimase malissimo. Non stette a spiegarmi ciò che invece raccontò a Mauro, che cioè egli già avesse adottato come modello Reagan, ma mi fece capire di essere rimasto più infastidito che compiaciuto dell'idea di approdare solo a Palazzo Marino. Dove invece la signora Pillitteri, sorella di Bettino Craxi, dovette ad un certo punto temere che volesse andare davvero. Rosilde mi disse, in un milanese stretto che non so ripetervi, che ognuno deve fare il suo mestiere.L'ascesaE veniamo alla sua "discesa in politica", come Berlusconi la chiamò in gergo calcistico, perché in campo si scende, non si sale.Qualche settimana prima dell'annuncio ufficiale, ma già quando si parlava da mesi delle tentazioni politiche del Cavaliere di Arcore, Fedele Confalonieri mi chiese se fossi disposto a fare per Berlusconi ciò che era stato ed era ancora il nostro comune amico Ugo Intini per Craxi. Gli risposi che dipendeva da ciò che Berlusconi avesse in testa, non avendolo ancora capito o percepito bene. Seguì una telefonata, credo da un'auto, in cui Berlusconi mi chiese con chi gli consigliassi di allearsi "in caso" di un suo impegno politico.Poiché avevo saputo dall'allora segretario della Dc Mino Martinazzoli che gli era stata offerta una candidatura da indipendente al Senato nelle liste democristiane, come ai tempi di De Gasperi lo scudo crociato aveva fatto con Cesare Merzagora, diventato poi del Senato il presidente, gli consigliai di accettare quella proposta. Ma lui mi rispose, deluso - credo - come quella volta allo stadio, che la Lega lo avrebbe preferito come presidente del Consiglio a Mario Segni, che stava diventando o era già diventato, peraltro sponsorizzato pubblicamente da Montanelli, il candidato della Dc a Palazzo Chigi, per quanto l'avesse abbandonata in malo modo l'anno prima, in coincidenza con il coinvolgimento di Giulio Andreotti nell'inchiesta sulla mafia a Palermo.Capii allora che tutto era stato già pianificato bene ad Arcore. Infatti la Lega, di cui consigliai a Berlusconi di non fidarsi, impallinò Segni dopo una trattativa condotta da Roberto Maroni. E nacque quello strano cartello elettorale, distinto fra il Nord e il Centro Sud, composto da Forza Italia, una mini-dc fondata da Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella, la Lega e l'ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, con cui Berlusconi vinse le elezioni del 1994. Dalle quali uscirono battuti i post-comunisti di Achille Occhetto e quasi polverizzati i post-democristiani di Martinazzoli, chiamatisi nel frattempo "popolari". Eppure, scomponendo risultati e forze, se Berlusconi si fosse alleato con la Dc, senza Bossi e Fini, Occhetto sarebbe stato ugualmente sconfitto.Prudentemente me ne andai in pensione. Berlusconi, assistito giustamente da un portavoce convinto delle sue scelte, arrivò a Palazzo Chigi, sia pure con quello strano incarico accompagnato con una lettera nella quale il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli fissava la linea programmatica. E la Lega di Bossi, in pochi mesi, prima gli impedì, di fronte alle plateali proteste della Procura di Milano, di limitare con un decreto legge già controfirmato da Scalfaro il ricorso alle manette durante le indagini preliminari, e poi promosse la crisi di governo per un progetto di intervento sulle pensioni. Su cui Umberto Bossi, recuperato dopo qualche anno all'alleanza di centrodestra, avrebbe impedito anche nel 2011 a Berlusconi di legiferare secondo le indicazioni della Banca Centrale Europea e della Commissione, sempre europea, di Bruxelles. Seguì la caduta, tra tempeste borsistiche e giudiziarie, dell'ultimo governo Berlusconi.  Eppure, a 80 anni compiuti, diavolo di un uomo, l'ormai ex Cavaliere è sempre lì a volersi battere, non so se più convinto o illuso che gli errori degli altri finiscano per rivelarsi sempre superiori ai suoi.