La decisione di accelerare la marcia della riforma della giustizia, con la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante come capitolo centrale, è arrivata la settimana scorsa a sorpresa. Fino a quel momento la premier non aveva nascosto l'intenzione di rallentarne il percorso, ufficialmente sulla base di una considerazione tattica. Sul tavolo c'è già una riforma costituzionale radicale e lacerante, cioè tale da spaccare il Paese in due, il premierato. Giorgia Meloni riteneva più prudente evitare di sovraccaricare ulteriormente tensione e divisioni e puntava dunque a rinviare la riforma della giustizia a un secondo tempo, dopo aver incamerato l'elezione diretta del premier. Dietro questa spiegazione tattica e legata solo all'opportunità era però diffuso e legittimo il dubbio di una ostilità più sostanziale di Chigi a una riforma poco gradita agli umori giustizialisti della base elettorale di FdI.

Sono due le domande che si pongono dopo il breve vertice di maggioranza che, la settimana scorsa, avrebbe stabilito di procedere a passo di carica, presentando il progetto di riforma al Cdm prima delle Europee. Prima di tutto se il dado è stato tratto davvero o l'annuncio sia più scena e apparenza che sostanza concreta. In secondo luogo, ove la decisione fosse reale, cosa ha spinto Meloni a cambiare così radicalmente opinione.

Il primo quesito è in realtà ancora privo di risposta. Per ora il testo sul tavolo dei ministri non è arrivato. In settimana sono previsti due appuntamenti centrali: il G7 sulla giustizia presieduto dal ministro Nordio e l'assemblea dell'Anm. La premier non vuole addensare nubi sulla prima scadenza e ha tutto l'interesse nel sondare gli uomori dei togati nel corso del secondo. Il no alla riforma è scontato ma i toni possono essere rivelatori. Tra i magistrati, oggi, il peso specifico della magistratura giudicante prevale di molto su quello degli inquirenti, che sono i più ostili alla separazione delle carriere.

Inoltre, e forse soprattutto il nodo delle riforme prima o dopo le Europee non è ancora stato sciolto. La premier e con lei tutta FdI preferirebbero evitare l'approvazione definitiva dell'autonomia differenziata prima del 9 giugno: temono di pagare quel voto a caro prezzo nelle urne del Sud. In cambio Meloni è disposta a rinviare a dopo le elezioni l'approvazione in prima lettura del premierato: anche per questo viene confermata la scelta di evitare tagliole o scorciatoie a fronte dell'ostruzionismo dell'opposizione, peraltro confermato. È ovvio che il semaforo rosso per le riforme della Lega e di FdI renderebbe impossibile il passo avanti di quella targata Fi, appunto il capitolo giustizia.

Infine sul testo della riforma Nordio pesa ancora un'incognita decisiva. L'intervento previsto sull'obbligatorietà dell'azione penale, o più precisamente sull'introduzione di un voto parlamentare destinato a sancire le priorità dell'azione penale ogni anno, continua a creare dubbi in quantità industriale. Per l'opposizione sarebbe infatti facilissimo bersagliare la riforma accusandola di voler far decidere ai governi e alle loro maggioranza in merito a quali reati rendere davvero obbligatoria l'azione penale e quando invece trasformarla in opzionale.

Non è affatto sicuro, forse neppure probabile, che l'annuncio della settimana scorsa sia davvero il preludio a una proposta governativa di riforma della giustizia prima delle elezioni. Un indizio arriverà oggi quando la conferenza dei capigruppo del Senato deciderà quando calendarizzare il voto sull'autonomia differenziata.

Salvini si era detto disposto a rinviare a dopo il 9 giugno ma Calderoli, autore della riforma e ormai a tutti gli effetti “grande vecchio” del Carroccio è di parere opposto e se la spunterà anche le altre due riforme in programma accelereranno. In ogni caso anche un ulteriore rinvio, probabilmente sino all'inverno, non escluderebbe la decisione di procedere a passo più spedito di quanto Chigi non immaginasse sino a poco fa. A orientare Meloni in questo senso sono due elementi in particolare: il peso di Fi, che tutti prevedono uscirà accresciuto dalle urne e solo il 10 giugno sapremo se sarà davvero così, e la scarsità di fondi a disposizione.

Fi ha iniziato la legislatura nelle insolite vesti del parente povero. Se le urne lo renderanno invece la seconda forza della coalizione Tajani reclamerà la sua quota di riforme con ben altra determinazione del passato. L'impossibilità di spendere consiglia inoltre di concentrare l'attenzione altrove. Un'ordalia a tutto campo, con le due riforme più incandescenti in campo, ora potrebbe essere non più un guaio ma un appiglio.