Nessuno, dalle parti di Palazzo Chigi, si spinge ad ammetterlo esplicitamente o a lasciarlo intendere in maniera univoca, ma ci sono una serie di elementi - a partire dal tono delle risposte o delle non risposte - che inducono a collocare il primo esito positivo della vicenda Salis in un contesto molto più ampio di quello giuridico. Un contesto che non si limita alle elezioni europee e alle ripercussioni elettorali che avrebbe avuto per la maggioranza italiana di governo un rush finale di campagna con un'italiana detenuta in un paese governato da un amico personale e politico di Giorgia Meloni, ma che tiene conto degli equilibri del prossimo Europarlamento e, soprattutto, di alcune questioni ancora pendenti tra Budapest e Bruxelles. Il ministro competente, Antonio Tajani, ha parlato di un lavoro “sottotraccia” tra la nostra diplomazia e quella magiara, e non sussistono dubbi sul fatto che, al pari di altre vicende come quella di Patrick Zaki o di Chico Forti (appena scarcerato) vi sia stato un canale di comunicazione intergovernativo sempre aperto ed efficace, ma tutti gli indizi, in questo caso, portano a ritenere che l'interlocuzione decisiva sia stata a livello di cancellerie.

Partiamo dalla questione prettamente politica: la nostra presidente del Consiglio ha promesso a Viktor Orban, ormai senza casa politica europea dopo l'abbandono del Ppe, un approdo nell'Ecr, funzionale al disegno meloniano di ancorare a destra la Commissione che uscirà dalle elezioni dell' 8 e del 9 giugno, senza assumere le posizioni anti- europee del tandem Salvini-Le Pen, alleati dei famigerati “impresentabili” tedeschi di Afd. Per Meloni l'arrivo di Orban è importantissimo in termini numerici, poiché rimpolperebbe di molto il gruppo ( che gioverà sicuramente dell'exploit di FdI, attualmente a Strasburgo col 2,8 per cento risalente al 2019) ma lo è anche in termini politici, perché l'obiettivo è quello di costruire un polo di destra istituzionale, che conta nelle sue fila premier in carica o ex- premier ( come nel caso della Polonia) ma non facenti parte delle due forze storiche di maggioranza europea.

Per Orban la questione è più delicata, perché in questo caso entra in gioco anche una questione economica non da poco. Così importante e sentita a Strasburgo, che ha determinato anche l'avvio di un'indagine dell'Europarlamento su Ursula von der Leyen e che è legata a doppio filo alle riforme giudiziarie e al rispetto dello Stato di diritto in Ungheria. Lo scorso dicembre, la Commissione Ue ha sbloccato dieci miliardi di fondi che Budapest reclamava da tempo ma che erano vincolati a una serie di riforme chieste dall'Unione ad Orban. Nel motivare l'erogazione, Bruxelles fece presente che le garanzie offerte dal governo magiaro erano soddisfacenti. Proprio in quei giorni, però, i 27 erano chiamati a votare un nuovo pacchetto di aiuti all'Ucraina, con la situazione in stallo a causa proprio del veto ungherese, caduto in modo repentino e indiretto, con l'abbandono della stanza da parte di Orban al momento delle votazioni. Tutti gli osservatori non hanno tardato a mettere

in relazione lo sblocco dei fondi con la caduta del veto, così come il mutamento di atteggiamento del leader ungherese coi ripetuti faccia a faccia avuti in quelle ore con Giorgia Meloni.

Dopo qualche mese, però, la Commissione giuridica del Parlamento europeo ha concluso che i progressi ungheresi sul fronte della giustizia e dei diritti umani non ci sono stati e che i dieci miliardi sono stati la leva usata dalla von der Leyen per “oliare” il voto sull'Ucraina, e così ha deciso di deferire la presidente. Ciò che più interessa a Orban, però, è che al momento vi sono altri 21 miliardi destinati al suo paese ancora fermi, di cui 10 provenienti dal Pnrr ungherese. Si tratta di soldi legati in una percentuale importante a riforme giuridiche: sei miliardi sono afferenti al meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto, mentre gli altri sono legati a questioni come il rispetto dei diritti della comunità Lgbtq+ o dei richiedenti asilo. I soldi sbloccati dalla Commissione e ora sub-iudice, invece, riguardano l'implementazione di riforme del sistema giudiziario. Il caso Salis, dunque, calato in questo contesto avrebbe potuto danneggiare il governo italiano nei confronti dell'opposizione in ottica elettorale, ma avrebbe potuto mettere una pietra tombale (e il rischio non è ancora scongiurato) sui miliardi pro- Ungheria in stand- by. La decisione dei giudici magiari difficilmente non ha tenuto conto di tutto ciò e la Cancelleria ha mancato di far arrivare un recap di tutta la situazione a chi di dovere. “Sottotraccia”, insomma, la matematica deve avere avuto un ruolo decisivo.

Tornando all'aspetto meramente giuridico, l'attenzione è ora tutta rivolta al processo e al merito dei capi di imputazione che gravano su Salis, i cui legali si preparano anche ad avanzare la richiesta che questa possa scontare i domiciliari in Italia in base a una normativa Ue sulla quale, però, sembra ci sia spazio per le interpretazioni. Guardando al dibattimento, il presidente dell'Unione delle Camere Penali, Francesco Petrelli, ha inviato mercoledì una lettera al nostro ministro degli Esteri per denunciare le minacce di cui è stato fatto oggetto a Budapest l'avvocato di Salis Eugenio Losco e chiedere per questi una adeguata protezione in vista del processo, a partire dalla prossima udienza, fissata per il 24 maggio.