La marcia della riforma costituzionale comincia oggi con la raffica di incontri sul tema tra Giorgia Meloni e i partiti dell'opposizione. Non si tratta affatto, come alcuni ritengono, di una mossa fatta per distrarre l'attenzione dai «problemi reali». Prima di tutto perché la fragilità della nostra architettura istituzionale è un problema reale eminente e di primissima grandezza. In secondo luogo perché nella strategia di Giorgia Meloni, che non vive politicamente alla giornata, la riforma della Costituzione è invece centralissima.

L'impianto istituzionale della prima Repubblica è stato abbattuto 30 anni fa dal referendum sulla legge elettorale e da allora non è stato più ricostruito. L'Italia è una Repubblica parlamentare di nome ma non di fatto, dal momento che il 99 per cento e oltre delle leggi proviene dal governo, cioè dal potere esecutivo, che procede a colpi di decretazione d'urgenza e voti di fiducia, spogliando così le Camere delle loro prerogative. Il bicameralismo perfetto ha già ceduto il posto a un monocameralismo alternato: una delle due Camere, a turno, fa il suo lavoro, l'altra si limita ad apporre un “Visto, si stampi”. Il presidente del consiglio ha le prerogative e il potere proprie di un premierato, senza però che sia chiaro come viene nominato il premier forte e chi lo elegge. Le coalizioni non hanno alcun vincolo e lo si è visto nella giostra impazzita della scorsa legislatura. Rimettere mano alle istituzioni, cioè alla seconda parte della Costituzione, sarebbe stato obbligatorio già tre decenni fa.

La premier ha in realtà illustrato il suo progetto il 25 aprile scorso: una nuova Repubblica che superi le lacerazioni della guerra civile in nome della riconciliazione nazionale. Senza alcuna parificazione tra fascismo e antifascismo ma in compenso con una assoluta parificazione tra il vecchio arco costituzionale e il Msi. Una Repubblica nel cui pantheon deve figurare in rilievo Giorgio Almirante, con tutto quel che ciò comporta in termini di definitiva legittimazione del partito erede del Msi non solo in Italia ma nel mondo e soprattutto in Europa. La rifondazione della Repubblica e la ricostruzione di un vero assetto istituzionale non sono la stessa cosa ma devono procedere appaiati, perché i due processi si giustificano a vicenda.

Solo oggi sapremo quale proposta avanzerà la premier anche se tutto autorizza a ipotizzare che si tratterà di un sistema fondato sull'elezione diretta del premier col capo dello Stato che manterrebbe le proprie funzioni di garanzia. Si tratterebbe dunque di un modello molto simile a quello al quale era arrivata 25 anni fa la Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema, segretario del Pds. Una proposta dunque che si può criticare ma non tacciare di venature fasciste o autoritarie.

Non è il modello che aveva in mente all'inizio la presidenzialista Meloni. Se lo proporrà sarà in nome della mediazione con le forze interne alla maggioranza, in special modo Fi, ma soprattutto in nome della necessità di trovare almeno una sponda nell'opposizione, in concreto quella di Calenda e Renzi, uniti o divisi che siano. Va da sé che una riforma di simile portata votata solo dalla maggioranza sarebbe molto più discutibile che non se fosse concordata anche con una sola forza d'opposizione. Per il Pd il rovello è reale: accettare il dialogo vorrebbe dire fare di Giorgia Meloni la nuova madre della patria, rifiutarlo a priori rischierebbe di spingere verso la porta d'uscita quella parte “riformista e moderata” del Pd che accetta di malincuore l' “estremismo”, per la verità inesistente, della nuova segretaria. La posizione assunta ieri dal Pd, «Non sono queste le priorità», denuncia proprio la difficoltà nella quale il partito si trova e si troverà nei prossimi mesi.

L'ostacolo principale, però, la premier deve trovare modo di aggirarlo all'interno della maggioranza. Il prezzo della Lega è noto: l'autonomia differenziata. Per la premier è un passo doloroso che preferirebbe evitare e che tuttavia sarà probabilmente obbligata a muovere. Sui tempi però Chigi sembra al momento determinato: le due riforme, presidenzialismo e autonomia, devono camminare con la stessa velocità. Salvini è di parere opposto, ha bisogno di incassare l'autonomia differenziata prima delle elezioni europee del prossimo anno. Ma un braccio di ferro prolungato nella maggioranza aprirebbe all'opposizione di Schelin e Conte un varco che al momento non c'è con possibili conseguenze disastrose per la stessa riforma su cui Giorgia Meloni, come a suo tempo Matteo Renzi, dovrà scommettere tutto.