Se appena un paio d'anni fa qualcuno avesse detto a Giorgia Meloni che la sua arma più vincente sarebbe stata la moderazione, probabilmente ne avrebbe riso lei per prima. Eppure è proprio così. Lei certo non adopererebbe mai quel termine. Parlerebbe di “pragmatismo” ma le due parole, nella stragrande maggioranza delle volte, sono quasi sinonimi.

A livello internazionale, per esempio, è molto difficile negare alla premier l'essersi conquistata un ruolo centrale nelle politiche dell'immigrazione. Al suo ormai rituale “vertice ristretto” sul tema, subito prima che il summit di Bruxelles aprisse i battenti, c'erano 14 Paesi europei, la maggioranza degli Stati membri, inclusa per la prima volta la Germania.

E c'era la presidente della Commissione europea ad avanzare proposte che avrebbe potuto scrivere direttamente l'Italiana. Pur se appoggiata anche da una parte del Pse, la politica di Meloni è chiaramente connotata a destra. Si basa sulla ' difesa dei confini esterni', cioè su una sorta di blindatura dell'Europa. Ma la sua strategia si è sempre tenuta ben distante dalle messe in scena di Salvini o dai ruggiti di Orbàn. Si configura come orientata all'irrigidimento ma senza calcare la mano, puntando sul sostegno all'Africa e su una demarcazione netta tra immigrazione regolare e clandestina.

Di destra, e non potrebbe essere diversamente, ma appunto con moderazione. Sul Green Deal, cioè sulla partita che sta dissolvendo la maggioranza nel Parlamento europeo, in realtà fittizia fin dal primo vagito, le posizioni estreme e poco ragionevoli sono state quelle dell'Europa, che hanno di conseguenza innescato la reazione sia della destra che del Ppe, cioè della maggioranza del Parlamento di Strasburgo.

Irragionevole era il miraggio di una transizione ecologica ideata senza tenere alcun conto delle ricadute che avrebbe avuto sui cittadini europei. La richiesta di ripensarla rendendola “sostenibile” per gli europei di oggi indigna gli apocalittici convinti, forse anche a ragione, che senza misure draconiane si arriverà non tanto tardi al collasso del pianeta. Ma resta il fatto che quella strategia a tappe forzate non aveva alcuna possibilità di essere realizzata, essendo troppo punitiva per gli europei in carne e ossa. Si sa che tante volte il meglio è nemico del bene. Sulla nota oggi più dolente, i dazi, la premier è stata spesso accusata, non sempre a torto, di essersi schierata dalla parte di Trump. La realtà è più complessa.

L'Europa tutta ha molto da perdere da uno scontro frontale tra Ue e Usa e ancor più avrebbe da perdere un blocco occidentale che è già quasi solo un ricordo. Tra i Paesi europei nessuno sarebbe danneggiato da uno scontro senza mediazioni quanto la Germania e l'Italia e questo spiega in parte la posizione di Meloni e Merz, che favorevoli a una soluzione negoziata anche a costo di pagare qualche prezzo.

Ma una crisi tedesca ricadrebbe sull'intera Europa e la posizione di Macron sembra rispondere più a un'esigenza di immagine e orgoglio nazionale che non a un razionale calcolo dei costi e dei benefici.

Ma in altre occasioni, come sulla guerra in Iran o sul riarmo, ad assumere posizioni radicali è stato proprio Merz e in fondo la stessa cosa si può dire, sul versante sinistro di Sanchez.

I problemi dello spagnolo sono in parte anche dell'Italia ma la decisione di andare al muro contro muro è forse più coraggiosa ma non più ragionevole della ricerca di una via d'uscita negoziata con discrezione. Strada che invece ha seguito l'Italia, che accetta formalmente il gioco dell'innalzamento delle spese Nato trattando però su margini ampi di flessibilità.

Da quando è presidente del Consiglio, insomma, Giorgia Meloni si è mossa puntando sempre sul negoziato invece che sulla sfida aperta e rivelandosi sempre molto attenta a non esorbitare dalle “compatibilità” date. Chi sperava che si rivelasse una premier “rivoluzionaria”, come prometteva in campagna elettorale è stato un bel po' deluso e per molti versi la strada che batte è tipicamente “all'italiana”. Ma in una fase così piena di pericoli e delicatissima non è affatto detto che il suo moderatismo non sia l'opzione migliore.