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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro degli Esteri Antonio Tajani (sx) e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini (dx) nell’ aula della Camera dei deputati durante la commemorazione di Papa Francesco, Roma, Mercoledì, 23 Aprile 2025 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse) Prime minister Giorgia Meloni, Foreign minister Antonio Tajani (left) and Infrastructure minister Matteo Salvini (right) at the Chamber of deputies during the commemoration of Pope Francis, Rome, Wednesday Apr. 23, 2025 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)
Il terzo mandato, bandiera leghista e ultima trincea per blindare Luca Zaia in Veneto, è stato affossato definitivamente dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato. Solo cinque i voti a favore: la Lega, Italia Viva e il gruppo delle Autonomie. A fermare l’emendamento non è stata l’opposizione, ma l’assenza di un’intesa nel centrodestra: Forza Italia ha votato contro, Fratelli d’Italia si è astenuta. Col risultato che il partito di Matteo Salvini ha subito una nuova, cocente sconfitta politica.
Un esito scritto da giorni, dopo il mancato accordo politico tra Lega e Forza Italia. A certificare il gelo è stato Giovanni Donzelli, braccio organizzativo di FdI: «Senza intesa con FI, non potevamo votare l’emendamento», mentre il presidente del Senato Ignazio La Russa ironicamente ha ricordato di aver pronosticato un “tramonto” del terzo mandato. «È la quinta volta che presentiamo l’emendamento», ha ricordato con amarezza Roberto Calderoli, «e ancora una volta ci scontriamo con un muro». Quello, in particolare, di Forza Italia: «Non ho apprezzato il loro atteggiamento», ha detto il ministro per gli Affari regionali, lasciando trasparire irritazione più che delusione. Decisamente più duro il commento del governatore lombardo Attilio Fontana: «La bocciatura del terzo mandato», ha detto, «è uno schiaffo in faccia a quelle comunità che, democraticamente, attraverso il voto, vorrebbero confermare amministratori apprezzati, capaci ed efficienti, poi perché è frutto di ripicche e ' mezzucci' di una politica bassa che mira solo all'interesse partitico del momento senza una visione a largo respiro».
«Spiace constatare», ha proseguito, «che sia a Roma, sia a Bruxelles, il centralismo continui a farla da padrone penalizzando, quando possibile, le Regioni e le Amministrazioni locali. L'esatto contrario di quello che auspicano i cittadini, soprattutto quelli del Nord che hanno sempre visto nell'Autonomia e nel federalismo una grande opportunità di crescita per il proprio territorio e per l'intero Paese». A poco serve, per Salvini, l’atteggiamento più morbido di Fratelli d’Italia, che con Balboni e Matera si limita ad astenersi, lasciando intendere che il tema potrà tornare in futuro. «Ma per ora – ha detto Balboni – il tema è fuori dal dibattito politico». Come a dire: parliamone dopo le Regionali, non ora. Il problema, però, è tutto presente.
Con il terzo mandato bocciato, l’autonomia differenziata in stallo, per Matteo Salvini lo spazio politico si assottiglia ogni giorno di più. La scommessa sul Trump pacifista e anti-Nato, in funzione anti- Ue, si è sgretolata con il nuovo corso “militarista” del tycoon, che ora invoca il riarmo e pressa l’Europa in questo senso. Insomma, il quadro per il segretario leghista si fa cupo. E la tentazione di alzare la voce diventa quasi obbligo. Non è un caso che, proprio nelle stesse ore della bocciatura, Salvini abbia rilanciato la vecchia battaglia della destra contro il reato di tortura, chiedendone la revisione, e annunci nuovi blitz politici nelle aule di giustizia. In primis il faccia a faccia con Roberto Saviano, che lo ha denunciato per diffamazione, trasformato in un comizio anti- élite.
A Pontida, intanto, si prepara la riscossa simbolica: è stato svelato il manifesto dell’edizione 2025 della kermesse leghista, che torna ai fasti bossiani, con slogan e iconografia anni Novanta. Un ritorno alle origini che sa più di autocelebrazione che di progetto politico. La linea della “guerriglia continua” è, oggi più che mai, l’unico rifugio per un leader in evidente difficoltà. Anche in Veneto – la regione da cui tutto era partito – il colpo è stato sentito. Paolo Tosato, primo firmatario dell’emendamento, ha parlato di «rammarico per FdI dopo le aperture delle scorse settimane» e di «speranza che alle prossime Regionali venga comunque indicato un leghista». Ma tutto è rimesso nelle mani dei leader. E le parole di Maurizio Gasparri non lasciano molto spazio: «Ora toccherà ai vertici della coalizione fare sintesi sulle candidature». Tradotto: la Lega, che voleva giocare d’anticipo, torna in panchina.
Anche Forza Italia, per bocca di Tajani, minimizza lo scontro: «Il terzo mandato non è la base della nostra alleanza. La coalizione si regge su ben altro: giustizia, premierato, politica industriale». Un modo elegante per chiudere il dossier e far capire che, se anche a qualcuno interessa, non è certo una priorità di governo. Anzi. A esultare apertamente è l’opposizione, soprattutto Pd e M5s. Alessandra Maiorino (M5S) parla di “vicenda penosa”, di “legnata” e “umiliazione” per la Lega. Al Capitano resta per il momento la scena, il megafono, il rumore. Ma la sostanza è sempre più sfuggente. E se l’ennesima bocciatura non avrà alcuna ripercussione sulla stabilità del governo, la maggioranza, segna comunque l’ennesima faglia tra partiti che ancora una volta sono andati in ordine sparso. «Il centrodestra non è una caserma», ha detto Tajani. Ma neanche una fiera dell’autogestione. E nel mezzo, tra una leadership salda e una in crisi, c’è una Lega costretta a inseguire. Con la voce sempre più alta. E l’eco sempre più debole.