Pare che la presidente del Consiglio si sia imbufalita con il dirigente del suo partito Federico Mollicone, responsabile Cultura di FdI, per quell'uscita sull'innocenza, a suo parere, dei condannati per la strage di Bologna: «È stato un autogol». Le parole di Mollicone hanno in effetti reso ancor più furibonda una polemica che tuttavia era già divampata per le parole della stessa premier in risposta alle accuse di Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione parenti delle vittime, nel corso del quarantaquattresimo anniversario della strage.

Il tentativo di censurare un parlamentare per aver espresso il suo parere su un processi considerati molto discutibili anche da diversi giornalisti e intellettuali di sinistra, a partire da Rossana Rossanda, è inquietante in sé e ancora di più lo è il fatto che la stessa leader del partito di Mollicone si senta in dovere di rimbrottarlo per aver osato tanto. Bisogna però fare chiarezza: ad avviare la polemica, con una vera e propria provocazione alla quale palazzo Chigi non avrebbe potuto non rispondere, è stato Bolognesi, ex parlamentare del Pd, seguito a ruota dalla segretaria Elly Schlein e da una foltissima pattuglia di esponenti dell'opposizione.

Bolognesi aveva attribuito a Licio Gelli e alla P2 la responsabilità della strage, e questo dicono in effetti le sentenze anche se sulla base di elementi molto deboli, dunque le parole di Bolognesi erano del tutto giustificate. Molto di meno lo era però l'aggiunta per cui il governo, con la riforma della Giustizia, starebbe attuando proprio il progetto del puparo regista della strage e ancora di meno l'accusare il medesimo governo di avere al proprio interno “a pieno titolo” le radici di quella strage. Un governo accusato di essere composto dagli eredi dello stragismo, impegnati peraltro a realizzare gli obiettivi dei registi dello stragismo non avrebbe potuto evitare la replica, né definire meno che “molto gravi” le parole di Bolognesi. Certo, la premier è andata poi oltre le righe, quanto a vittimismo, affermando che quelle parole mettono a rischio la sua incolumità ma la sbavatura è certamente minore rispetto alla portata di un attacco che mirava evidentemente proprio a provocare la replica in modo da giustificare la denuncia, puntuale e di fatto quotidiana, di civettare ancora con il neofascismo senza prenderne mai davvero le distanze. Le ragioni di questa strategia politico- mediatica sono evidenti.

La convinzione è che la contrapposizione secca tra un fronte che comunque, pur con tutte le critiche che gli si possono muovere, difende e incarna la democrazia e un altro che della democrazia intende mantenere solo la facciata sia proficua sul piano del consenso e porti a vincere le elezioni: quelle politiche, ma prima ancora quelle regionali e i referendum. L'Italia non è certo il solo Paese in cui, in questa fase, la denuncia del fascismo alle porte sia adoperata come strumento di propaganda elettorale. È stato così in Francia, e il secondo turno delle elezioni dimostra che la formula ha funzionato. È così negli Usa, e non possiamo ancora sapere se una divisione profondissima e la chiamata alle armi e alle urne contro Trump, indicato e considerato da mezzo Paese una minaccia esiziale per la democrazia, permetterà a Kamala Harris di recuperare lo svantaggio accumulato dai Democratici con la candidatura Biden.

L'Italia però è in situazione diversa. Da noi infatti l'allarme rosso per la democrazia in pericolo ha iniziato a suonare, spesso a distesa, molto prima che nel resto dell'Occidente: almeno da metà anni ' 90, quando Berlusconi è stato dipinto come protofascista ma anche mafioso, il nemico per eccellenza. Non c'è solo il caso eclatante del Cavaliere però.

La Lega di Bossi era fascista, tanto che il capogruppo del PdS D'Alema propose addirittura di sospendere le elezioni a Mantova e Varese, nei primissimi anni ' 90, per evitare che il nuovo fascismo se ne impossessasse. Salvo poi promuovere la Lega a costola della sinistra quando tornava utile. Anche se nessuno lo ricorda volentieri, a sinistra, il M5S è stato a lungo dipinto, soprattutto dopo la vittoria nelle elezioni del 2018 e non da tutti ma da molti, come il covo delle nuove SA. Nel 2019 sembrava normale disquisire sulla maggior somiglianza di Matteo Salvini con Benito Mussolini o direttamente con Adolf Hitler. In questo lungo lasso di tempo, la guerra civile mimata non ha mai aiutato la sinistra. Ha vinto le elezioni una volta, nel 1996, esclusivamente perché la destra era divisa, e un'altra nel 2006, per finta.

Il recupero di un Berlusconi dato per spacciato anche dai suoi luogotenenti fu tale da rendere quelle elezioni un esempio moderno perfetto di cosa si intenda per “vittoria di Pirro”. Il M5S ha continuato a vincere fino a che non si è semidistrutto da solo per manifesta incapacità. Salvini è stato in effetti fermato ma solo per cedere il posto al partito di Giorgia Meloni, il più a destra nello schieramento politico. Insomma sarebbe opportuno domandarsi se in Italia la radicalizzazione estrema e la trasformazione della lotta politica in una sorta di scontro di civiltà convenga alla sinistra. Berlusconi, che di propaganda ne capiva più di chiunque altro, era evidentemente convinto del contrario: faceva il possibile per presentare la lotta politica esattamente in quei termini ma, a differenza, degli avversari, se ne avvantaggiava davvero.

L'Italia non è la Francia repubblicana e neppure gli Usa. La mentalità politica degli italiani non è stata plasmata dal fascismo ma dalla Democrazia cristiana, e la Dc ha campato per decenni sulla viscerale paura degli italiani, o della maggioranza degli stessi, per “i comunisti”. C'è il caso che richiamare quel clima da scontro frontale, come ha deliberatamente fatto il 2 agosto il centrosinistra, aiuti solo la destra. Come è sempre accaduto sinora.