Si dice, non a torto, che in Italia vi sia una campagna elettorale permanente. Le elezioni, però, non sono tutte uguali: quelle che si stanno per celebrare sono le Europee più simili alle Politiche che si siano mai viste da queste parti. Sarà per questo che il coefficiente di propaganda nelle parole dei leader, in questo rush finale, sta toccando vette inedite, senza contare casi ai limiti del grottesco come il video del generale Vannacci che ha trovato il modo di giocare di rimessa anche sul discorso per Giacomo Matteotti della premier, strizzando l'occhio agli irriducibili della Fiamma che male hanno digerito la condanna degli «squadristi fascisti». Ecco perché su chi ha veramente a cuore le riforme graverà il compito, una volta chiuse le urne e decretati vincitori e sconfitti, di tenere la guardia alta e richiamare per quanto possibile - ciascuno alla coerenza. In primis i sostenitori della riforma dell'ordinamento giudiziario, che sanno bene, in cuor loro, quanto accidentato e già in affanno sia il percorso del ddl costituzionale licenziato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri e quanto esile sia la speranza che il suo percorso porti a un via libera entro la fine della legislatura.

A questo meccanismo, in base al quale ogni fatto di cronaca o di attualità può essere usato strumentalmente per dimostrare la bontà di questo o quel provvedimento, di una tesi piuttosto di quella degli avversari politici, non poteva dunque sfuggire il ddl Nordio. Giovedì sera, intervistata in tv, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riproposto gli argomenti a favore della riforma che aveva utilizzato quando, un paio di settimane fa, aveva ufficialmente annunciato il suo approdo in Cdm. Meloni, in ossequio alla prassi della campagna elettorale, ha preferito non entrare nel merito delle norme contenute nel provvedimento, temendo forse di entrare troppo nel tecnico e di tediare gli spettatori, non avvezzi a sentir parlare di carriere requirenti, giudicanti di consiglieri laici o togati. Ha preferito operare un richiamo al fatto di cronaca giudiziaria più clamoroso degli ultimi tempi, vale a dire il provvedimento cautelare per il governatore ligure Giovanni Toti, accusato di corruzione e voto di scambio.

In entrambe le occasioni la leader di FdI ha parlato di «giustizia a orologeria», di tempi sospetti, di ordinanze spiccate anni dopo i fatti e nell'imminenza di importanti elezioni politiche, non mancando di specificare che anche i cittadini comuni, con l'attuale sistema, rischiano di cadere vittime della malagiustizia. «Mi piacerebbe in futuro», ha affermato Meloni, «non solo per Giovanni Toti ma per qualsiasi italiano, che tra quando viene formulata una richiesta di misure cautelari e quando viene eseguita, non passassero mesi per poi magari eseguirla guarda caso in campagna elettorale. Perché se c'è il rischio di reiterazione del reato», ha aggiunto, «come è stato detto, va fermato subito, non dopo mesi magari in campagna elettorale». «Quando avremo un sistema così», ha concluso citando indirettamente il testo Nordio, «forse le cose funzioneranno meglio». Argomenti non privi di validità, che investono l'annosa questione dell'equilibrio tra accusa e difesa e della promiscuità non salutare tra giudici e pm, senza parlare del gap che si crea sin dall'inizio dei procedimenti in seguito alla risonanza mediatica delle tesi dell'accusa.

Nei prossimi giorni gli sviluppi dell'inchiesta ligure, associati alla fine della campagna elettorale, ci diranno se il dibattito si trasferirà dal piano dei titoli a effetto e degli slogan a quello del merito delle questioni. O se, come talvolta avviene, la riforma della giustizia uscirà dai radar dopo essere stata utile a sventolare qualche bandiera per ottenere un punto percentuale alle elezioni. Lo si capirà dai tempi con cui il ddl sarà assegnato alla Commissione di merito ( e i primi screzi su quale dovrà essere non fanno ben sperare) e sulla frequenza delle sedute col provvedimento all'ordine del giorno.

Gli ineluttabili retroscena parlano già di una lotta sottotraccia tra il partito della premier e quello degli eredi di Berlusconi per dare le carte sulla tempistica dell'esame del testo, in cui gli azzurri sarebbero intransigenti sulla necessità che presidente di commissione e relatore sia uno dei loro ( nella fattispecie il deputato Nazario Pagano) ma i meloniani e i leghisti vorrebbero avere anche loro voce in capitolo attraverso i rispettivi “big” della giustizia ( come Alberto Balboni, Ciro Maschio e Giulia Bongiorno). In tutto questo bailamme, gli inguaribili ottimisti osservano che, depurato da esigenze di propaganda e da utilizzi strumentali, l'incedere del provvedimento potrà essere meno politicizzato, anche se, a monte delle polemiche degli ultimi giorni, ci sono 30 anni di storia repubblicana a far pensare male.