Per il suo compleanno è sceso da Londra Robert Skidelsky, e il regalo più bello di certo glielo ha fatto la Camera dei Lord, aprendo il 18 novembre una sua sala per la presentazione del Meridiano Mondadori dedicato a Keynes che lui stesso ha curato, ritraducendo anche la Teoria Generale. Ma il fatto è che, degli ottanta anni compiuti pochi giorni fa, la metà Giorgio La Malfa li ha trascorsi in Parlamento, italiano o europeo che fosse: dal 1972 al 2013.

La storia di Giorgio La Malfa sembra un compendio di storia della Repubblica. Un’immagine lo racconta bene: negli anni Cinquanta c’era a Roma un palazzo nel quale abitavano al sesto piano Pertini e Nenni, all’ottavo Ferruccio Parri che con l’inquilino di sotto - Ugo La Malfaaveva fondato il Partito d’Azione, e nella scala a fianco Amendola e Giolitti. Costruito da una cooperativa di parlamentari sulla Cristoforo Colombo, lo chiamavano non a caso Palazzo Italia. La classe dirigente dell’Italia repubblicana era non solo povera come il Paese distrutto dalla guerra, ma era anche di costumi severi.

E quella casa di cooperativa era un po' il simbolo di quella Italia. Ugo La Malfa veniva da una famiglia siciliana di mezzi molto modesti, figlio di un poliziotto che poté studiare solo grazie alla generosità di una parente. Antifascista da sempre, a metà degli anni Trenta era stato assunto nella Banca Commerciale di Raffaele Mattioli e ne era divenuto capo dell’ufficio studi, tessendo nello stesso tempo le fila del Partito d’azione che fu, insieme al Partito comunista, il maggiore protagonista della Resistenza.

Keynesiano rigoroso quanto il padre Ugo e come il padre rigorosamente laico, Giorgio La Malfa è stato ministro del Bilancio e delle Politiche comunitarie, segretario e presidente fino al 2006 di un Partito Repubblicano che si frantumò nel maggioritario e nell’apertura di credito che lui stesso fece al governo Berlusconi, entrando nell’esecutivo.

Prima, c’era stata Tangentopoli, e quei 300 milioni di lire in nero che La Malfa ammise anzitutto con un discorso alla Camera. Eppure, chi glielo dice ai demagoghi di oggi che l’espressione “partito degli onesti” l’ha inventata proprio La Malfa, nella battaglia contro la Dc? E che fu lui da ministro del Bilancio a creare, nel 1980, l’analisi costi- benefici per gli investimenti pubblici?

Qualche giorno fa in un’intervista al Foglio lei ha sostenuto che “i partiti irrilevanti possono diventare igienizzanti”. In tempi di taglio dei parlamentari, pare il distico perfetto della storia del Partito Repubblicano...

Mi avevano chiesto che cosa pensassi del fatto che più o meno tutti, Calenda, Renzi, perfino Berlusconi, sembrano voler fare un partito repubblicano. Avevo risposto che secondo me pensavano che la forza del PRI stesse nel suo essere determinante ai fini delle maggioranze di Governo, e che dunque noi avessimo una specie di potere di ricatto. Mentre non era affatto così. Avevamo 10, 15, al massimo 25 deputati e collaboravamo con la DC e il PSI che la maggioranza già ce l’avevano. Fummo nella solidarietà nazionale in cui c’era anche il PCI. Quando abbiamo condizionato la politica nazionale non l’abbiamo fatto esercitando un potere di ricatto, né ai tempi di mio padre, né ai miei. Prenda l’ultima battaglia politica di mio padre: l’adesione dell’Italia allo Sme nel dicembre 1978. Nel vertice europeo di Parigi Andreotti aveva comunicato che per il momento l’Italia non sarebbe entrata. Aveva l’assenso del PCI, del PSI, della DC. Sette giorni dopo si presentò in Parlamento e annunciò l’esatto contrario, lasciando di sasso il PCI che non era stato avvisato del voltafaccia e che con il suo capogruppo Napolitano annunciò il voto contrario, mentre il PSI si astenne. Che cosa era avvenuto? Che il PRI aveva comunicato che se non fossimo entrati subito, saremmo passati all’opposizione. Loro avevano la maggioranza per procedere senza di noi... Oggi Renzi minaccia un giorno sì e uno no di far cadere il governo. Ma per imporre che cosa? Piccoli trofei da agitare presso categorie di elettori, alla caccia di voti di categorie. E’ cosi per la quota 100 della Lega, e per il reddito di cittadinanza per i 5 stelle. Non sono battaglie per fare imboccare all’Italia una strada piuttosto che un’altra, ma per raccattare voti. Non sono leaders, sono followers. Non guidano, inseguono gli elettori.

È la differenza che c’è tra il porre problemi politici e di visione generale del Paese, ed esercitare un potere di ricatto, certo. Ma non è anche una differenza tra ere politiche, e caratura e qualità dei politici?

Noi ponevamo problemi politici che alimentavano il dibattito interno ai grandi partiti; non eravamo e non ci sentivamo dei competitori sul piano elettorale, ma ci impegnavamo nella battaglia delle idee. La forza delle nostre prese di posizione era nella nettezza della nostra identità politica: filo- europea e atlantista, liberale e di sinistra in politica economica. E poi nella qualità elevatissima della nostra forza parlamentare, Giuseppe Galasso, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini, Francesco Compagna... l’elenco sarebbe lungo. Una volta, essere eletti era un alto onore. Oggi, con il Parlamento denigrato ormai da tre decadi, le persone di valore non aspirano certo a diventare parlamentari.

Si spieghi meglio: a cosa potrebbe servire oggi una forza di minoranza come il PRI?

All’epoca, servivamo a porre problemi che i partiti di massa avrebbero avuto difficoltà ad affrontare da soli. Ma guardi all’oggi e prenda la grande questione della crescita e della lotta alla disoccupazione. E prenda il problema dello Stato sociale. Con il debito pubblico che abbiamo non c’è spazio per fare tre cose insieme: gli investimenti necessari per creare la piena occupazione, la spesa sociale per difendere i ceti più deboli, l’aumento dei consumi. La soluzione della destra di Salvini è promettere queste tre cose e dire che l’Italia può uscire dall’Europa. La nostra soluzione sarebbe di dire agli italiani che dobbiamo fare gli investimenti e difendere lo stato sociale, e quindi i consumi privati debbono aspettare. Questo governo, come di precedenti, promette invece sgravi fiscali per sostenere i consumi privati, difende la spesa sociale e taglia gli investimenti. Ecco perché l’Italia da dieci anni non riesce a uscire dalla crisi e manda all’estero intere generazioni di giovani. Qualche volta mi verrebbe voglia di riprendere la battaglia….

Lo dice perché lei è cresciuto a latte e politica.

Certo io mi considero un uomo fortunato. Sentire parlare mio padre, Adolfo Tino, Raffaele Mattioli, Leo Valiani; assistere da sempre ai congressi del piccolo ma nobile Partito repubblicano; avere cominciato a lavorare a 18 anni a Mediobanca con Enrico Cuccia che dietro il distacco apparente del banchiere aveva gli ideali nati con la battaglia antifascista mi ha dato cose che né la scuola, né l’università potevano dare. Inizialmente avevo cercato di allontanarmi dalla politica andando a studiare all’estero, a Cambridge prima e poi con Franco Modigliani negli Stati Uniti. Ma rientrato in Italia, cominciando l’insegnamento a Napoli con un altro intellettuale antifascista come Manlio Rossi Doria, ho sentito fortissimo il richiamo della politica. Quella degli azionisti e poi dei repubblicani era una battaglia di minoranza che nel Paese sembrava avere trovato poco riscontro, ma che aveva contribuito alla Resistenza, aveva imposto la scelta repubblicana, aveva collaborato alla ricostruzione e al miracolo economico. Ho sentito che non avevo il diritto di far cadere quel patrimonio di ideali. Non sono entrato in un grande partito per far carriera... Ed è cominciata così la mia vita politica. Il PRI aveva eletto un solo deputato in tutto il Piemonte. La DC, il PCI ne eleggevano decine nelle due circoscrizioni piemontesi. Io dovevo portare le nostre posizioni, spesso impopolari, come le politiche dei redditi, la critica al regionalismo, in condizioni difficilissime. Capii che bisognava partire da una iniziativa culturale: fondammo con Paolo Savona, Antonio Maccanico, Marcello De Cecco e pochi altri un centro studi di politica economica a Torino che faceva due o tre iniziative culturali alla settimana e pubblicava un bollettino quindicinale e una collana di libri. Nel giro di dieci anni il PRI elesse sei o sette deputati e senatori al posto di uno. Ma per una battaglia di idee.

Il suo più grande errore?

La vicenda della violazione della legge sul finanziamento dei partiti nel 1992. Io me ne assunsi la piena responsabilità, senza scaricarla sul tesoriere del partito, come altri andavano facendo. I costi della politica sono sempre stati molto alti, ben superiori al finanziamento pubblico: anche amministrando il partito con rigore, servivano finanziamenti ulteriori. Il pericolo che ci venissero chieste contropartite era troppo alto, e quindi mi assunsi la responsabilità di occuparmene personalmente. Perché sa, i soldi all’epoca nemmeno dovevamo cercarli: molti ce li offrivano, chiedendo però che non fossero messi a bilancio. Come fu per quel finanziamento della Montedison.

E andare al governo con Berlusconi non fu un errore? Nel PRI ci fu una rivolta, e poi il partito si spaccò imboccando la via dell’estinzione.

Fu un’apertura di credito a quella che avrebbe potuto essere una nuova fase di Berlusconi. Io la consideravo una fase transitoria per verificare se di fronte all’incapacità del centrosinistra ci fossero capacità nel centrodestra. Il PRI non lo capì: quasi tutti i quadri la presero come una scelta definitiva. E si spaccarono in quelli che la presero benissimo, e quelli che la presero malissimo.

I sistemi elettorali hanno agito anche sulla qualità di selezione della classe politica?

L’Italia aveva una discreta legge elettorale che è servita bene nei primi 40 anni di Repubblica: se siamo passati dall’assoluta povertà a essere il settimo paese al mondo, il sistema istituzionale e politico non doveva essere poi tanto male… Ha notato che il declino italiano data da quando abbiamo cominciato a inseguire le riforme elettorali e le riforme costituzionali? La qualità della vita del Paese non si migliora con le soglie di sbarramento, né si risolvono con una legge elettorale problemi che sono invece politici. Le riforme costituzionali poi sono ormai diventate la scusa per chi fallisce l’azione di governo: la colpa non è mia, è delle regole. I presidenti del Consiglio che da Palazzo Chigi propongono di cambiare la Costituzione dovrebbero avere il buon gusto di dimettersi prima di cominciare questa battaglia…

Non vale, però, non fare nomi!

Renzi. Oltretutto, se uno propone una riforma e dice che se gli italiani la respingono si ritira a vita privata, e non lo fa, non tornerà mai più al centro della vita politica. E’ segnato per sempre.

Tuttavia, non è che eclissatosi Renzi da Palazzo Chigi le cose vadano meglio. Adesso, da destra, soffia un vento presidenzialista.

Un’altra scorciatoia. Quella sul presidenzialismo è una questione che venne seriamente discussa alla Costituente. Democratici di assoluta coerenza come Leo Valiani e Piero Calamandrei erano presidenzialisti. La Costituente saggiamente scelse una strada diversa. Il presidenzialismo è un sistema molto pericoloso in certe circostanze, molto inefficiente in altre. La tesi dei presidenzialisti democratici è che è un sistema che rafforza il governo – e questa è un’esigenza vera in democrazia – e che costringe i concorrenti a convergere verso il centro. Ma se il grosso dell’elettorato sceglie posizioni estremiste, come vediamo negli Stati Uniti? E non è tutto. Il presidenzialismo diventa debolissimo quando il Senato ha un orientamento contrario a quello del Presidente. E dunque in Italia c’è il rischio di un presidenzialismo in cui però il Presidente abbia assicurata una maggioranza del Parlamento. Un presidenzialismo di tipo sud- americano, rischioso per la democrazia, come si vede nel caso del Brasile. Saldando il presidente alla sua maggioranza nelle Camere potremmo risvegliarci in un incubo. Il centrodestra di Salvini e della Meloni finirà per sostenere proprio questo, e temo che Berlusconi non abbia la forza di opporsi. Chi tocca la Costituzione, tocca la democrazia. Chi dice di volerla modificare, è la democrazia che vuol ridurre.

Non c’è nulla da salvare, nella corrente stagione politica?

Ho sentito il Presidente del Consiglio fare alcune affermazioni importanti. Vedremo come evolve questa personalità.

Lei che nel 2006 previde non solo il ritorno di Prodi ma anche la sua rapida caduta e che poi all’Italia sarebbe servito ricorrere a Monti, cosa pensa possa accadere oggi?

Si può intuire solo quel che può accadere a breve. Credo si vada al voto la prossima primavera. Perché nella riforma che taglia il numero dei parlamentari vi è una norma che prevede che se lo scioglimento del Parlamento avviene prima della promulgazione della legge, il taglio dei parlamentari entri in vigore nella legislatura successiva a quella che verrebbe eletta. E’ probabile che alla fine resterà l’attuale legge elettorale. Se applicata per eleggere 630 parlamentari, gli attuali partiti manterrebbero una rappresentanza significativa. Se si riduce il numero dei parlamentari, verrà anche una legge più maggioritaria. Comunque il governo purtroppo mi sembra fragile, molto fragile. Dovrebbe avere invece coraggio. Il coraggio che serve a dire la verità agli italiani sulla situazione economica del Paese. Facendo solo un po' di questo e un po' di quello, il Paese continuerà ad andare a fondo. Serve una vera svolta ed essa deve cominciare dalle coscienze.