IL PREMIER ATTESO DOMANI IN AULA PER L’INFORMATIVA SULL’UCRAINA

Dipende dai sondaggi. Non soltanto ma certo in misura ampia. Dipende anche da uno slittamento nella politica europea mai dichiarato ma vigorosamente praticato. La somma è una marea crescente nella maggioranza che però non sembra affatto destinata a mettere in difficoltà il governo e potrebbe anzi fornire a Mario Draghi argomenti e strumenti per la partita veramente difficile che lo aspetta, quella del Consiglio europeo.

Domani il premier sarà di fronte al Parlamento. Inizialmente era intenzionato a non andare oltre le risposte al question time, occasione di poca solennità. Incalzato dalle insistenze della sua stessa maggioranza ha infine accettato di svolgere una vera informativa, che comunque non prevede e non permette voti di sorta. Il premier vuole arrivare all'appuntamento con gli altri leader europei con in tasca la cambiale in bianco e il voto di fatto all'unanimità dello scorso marzo.

Da allora il quadro è molto cambiato e se non si è rovesciato poco ci manca. Nella maggioranza solo due partiti il Pd e Iv sono rimasti sulle stesse posizioni. I 5S e, con toni più dimessi, LeU sono apertamente contrari all'invio indiscriminato di armi e chiedono garanzie sulle finalità degli aiuti militari. La Lega bordeggia, si tiene in equilibrio, avanza dubbi quotidiani sulla diplomazia del sostegno militare ma Matteo Salvini è molto attento a tenersi a visibile distanza dai toni descamisadi di Giuseppe Conte, quasi come se in uno strano gioco delle parti i due si fossero scambiati i rispettivi ruoli. Fino a due giorni fa Fi sembrava invece allineata con il Pd. Poi Silvio Berlusconi ha di fatto rovesciato il tavolo. Ieri ha chiarito che il suo durissimo attacco contro l'incapacità di negoziare dell'occidente e dei leader occidentali non è né una giustificazione dell'invasione né una presa di distanza dalla Nato. In effetti si tratta piuttosto di un attacco diretto alla linea dell'amministrazione Biden e dei falchi di Washington e Londra. C'è chi pensa che la linea del Cavaliere non sia necessariamente quella del partito azzurro e vagheggia un ammutinamento che, fatta salva la delegazione al governo dove la frizione è ormai di lunga data, è invece del tutto impensabile.

È probabile che molti dubbi dubbi sulla strategia dettata da Washington covassero già al momento del voto unitario sulla Risoluzione di marzo. Se quei distinguo e quelle critiche emergono oggi è perché i sondaggi affermano all'unanimità che una porzione molto vasta del Paese, probabilmente maggioritaria, ne condivide il senso e perché la divaricazione latente tra gli interessi e dunque l'impostazione anglo- americana e quella della Ue, o almeno dei suoi Paesi centrali, è sempre meno celata. Le colombe della maggioranza, insomma, non inseguono il consenso dell'opinione pubblica ma si sentono legittimati e per usare un eufemismo ' incoraggiati' da quel consenso.

Una divisione sancita dal voto della sua maggioranza sarebbe per Draghi eventualità sommamente sgradita. Lo indebolirebbe nelle trattative con la Ue su capitoli determinanti come il Price Cap sul gas e lo stanziamento di un Energy Fund. Quel voto sarà evitato ma le dichiarazioni in aula dei vari partiti certificheranno la faglia che traversa la maggioranza.

Senza la spaccatura ufficiale e vistosa sancita da un voto, però, quelle voci potrebbero essere adoperate da Draghi come argomento pesante e forse decisivo a Bruxelles. Dimostrano infatti che il consenso iniziale intorno alle sanzioni e alla fornitura di armi si sta sgretolando in basso come in alto, nell'opinione pubblica e in Parlamento. Senza interventi tempestivi capaci di frenare le ricadute della crisi sulla popolazione, quel consenso verrà eroso rapidamente e sempre più, via via che il peso della crisi energetica, dei rincari e dell'inflazione si farà sentire. Mettere in campo una risposta europea alla crisi energetica e bellica al livello di quella dispiegata contro il Covid è dunque condizione necessaria per sostenere le politiche sin qui adottate nella crisi ucraina senza incorrere in una delegittimazione che resusciterebbe ancor più agguerrito di prima quello spettro del populismo che terrorizzava l'Unione fino a pochissimo tempo fa.

La divisione latente a Roma, insomma, può essere a modo suo una carta vincente a Bruxelles. Ma se non lo sarà, se l'Unione non riuscirà a trovare l'unità necessaria per rispondere alla crisi il quadro si rovescerà perché da un lato le divisioni si approfondiranno e dall'altro sfuggire al confronto giocando a rimpiattino come ha un po' fatto sinora Draghi diventerà impossibile.