La domanda chiave, in una conferenza stampa convocata per presentare una riforma «epocale», anzi di più «la madre di tutte le riforme», è semplice e secca ma resta senza risposta: ma perché avete rinunciato alla formula più logica, quel “simil simul” per cui se il premier eletto cade si torna a elezioni senza scappatoie e confusionarie vie d'uscita? Alla fatidica domanda se ne aggiunge un'altra, appena meno centrale: non sarebbe stato meglio convenire con l'opposizione un premierato senza elezione diretta ma davvero forte invece che spogliare il capo del governo eletto dal popolo di poteri essenziali come la nomina e revoca dei ministri? La premier non risponde. La ministra Casellati, mamma della mamma di tutte le riforme neppure. O almeno non esplicitamente.

La premier si barcamena in confuse e inconsistenti giustificazioni, «abbiamo pensato che altrimenti ci sarebbe potuta essere minore stabilità». Non nasconde però che a lei il “simul simul” sarebbe piaciuto molto di più e in fondo c'è sempre un lungo iter parlamentare. Uscito dalla porta può sempre rientrare dalla finestra. Ovvio, ma perché rendere più difficile quello che sarebbe stato facile e naturale fare subito? La risposta, forse, la offre fra le righe Elisabetta Casellati. Che lei e Giorgia esaltino la loro riforma è nell'ordine delle cose: in cinque punti semplici semplici, ripetono in coretto, pone riparo ai guasti della seconda Repubblica, tutti e ciascuno. Niente più ribaltoni, perché sì, il premier una e una sola volta può cambiare nel corso della legislatura ma solo se lo vota la stessa maggioranza e con l'impegno costituzionalizzato a rispettare il programma. Non è chiaro se la medesima maggioranza debba però essere al completo o no, e soprattutto se si possa allargare, come pare inevitabile, o meno. Insomma, lo spazio per qualche quasi ribaltone ci sta tutto e i programmi, quando mai hanno contato qualcosa nella politica italiana? Le cose cambiano le circostanze mutano, quel che sembrava possibile in campagna elettorale è spesso chimera appena qualche mese dopo, come proprio il caso di questo governo conferma. Infatti la premier derubrica a «non in contrasto col programma».

Il segreto, probabilmente, lo svela in controluce la ministra per le Riforme: «Abbiamo cercato di costruire un modello che potesse soddisfare le esigenze di tutti, dunque mi auguro che nel dibattito parlamentare ci sarà il punto di caduta, perché da parte nostra c'è stato uno sforzo massimo. Eravamo partiti con l'elezione diretta del presidente della Repubblica, abbiamo abbassato bandierine per venire incontro, ascoltato altre criticità».

Se si mette insieme questa affermazione con il visibile auspicio della premier a favore di un provvidenziale emendamento la conclusione quasi s'impone: la maggioranza offre il sacrificio dell'elemento principale della riforma in cambio di un accordo con l'opposizione che non ci sarà. Quando il no dell'opposizione, Renzi escluso, in realtà già certissimo, sarà ufficializzato in aula, si può scommettere che la norma antiribaltone verrà riveduta e corretta. E non sarebbe un male dal momento che in questa inguardabile versione può provocare solo confusione e danni.

L'altra criticità della riforma viene rinviata al Parlamento. Casellati respinge l'accusa di aver adottato un modello tentato una sola volta nel mondo e con risultati disastrosi: «È vero che in Israele non ha funzionato, ma perché lì l'elezione del premier non era vincolata a una maggioranza e quindi il vincitore era ostaggio del Parlamento». Qui, grazie al paletto già fissato, il premio di maggioranza sino al 55 per cento (ma forse anche oltre specifica Meloni, perché mettere limiti alla Provvidenza e alle leggi truffa?), il problema non si porrà. Solo che se ne porranno altri.

Per evitare premi di maggioranza spropositati bisognerà fissare una soglia e anche se il compito di districare la matassa è delle Camere è chiaro che il governo se ne rende conto. Ma se nessuno raggiungesse quella soglia si imporrebbe il ballottaggio e prima o poi qualcuno nella destra si ricorderà che il doppio turno è sempre stato considerato, non a torto, una sciagura per le coalizioni di centrodestra. Inoltre, anche così, il premio di maggioranza rischia di essere vertiginoso e si tratta di un'eventualità sulla quale la Consulta avrà di nuovo, come ai tempi dell'Italicum, qualcosa da dire. Inoltre la ministra specifica che il premio di maggioranza è su scala nazionale. Peccato che senza una ulteriore riforma costituzionale per il Senato sia impossibile.

Insomma, la riforma è partita ma prima che approdi e possa sfidare il referendum dovrà cambiare radicalmente. Solo su un punto Meloni tiene botta bene, l'eliminazione dei senatori a vita. Ha un argomento facile: dopo il taglio dei parlamentari il peso specifico dei senatori a vita è lievitato e non si può mettere la sorte di un governo nelle loro mani. Ma quanto al tenere botte la premier, che in queste cose ha mestiere, dà il meglio sulla grottesca vicenda dello scherzo russo.

Non si rende ridicola assicurando di aver capito subito la beffa: «Alla fine qualche dubbio mi è venuto e lo ho segnalato all'ufficio diplomatico. È lì, non nel passare la telefonata, che c'è stata superficialità nel procedere con le verifiche in modo serio. Per questo stamattina il mio consigliere diplomatico, l'ambasciatore Francesco Talò, ha rassegnato le dimissioni e lo ringrazio». Forse è una versione addomesticata per scaricare ogni responsabilità su Talò, che era comunque già vicino alla pensione. Però funziona.