«Andrò ad ascoltare», faceva sapere alla vigilia della raffica di incontri sulla riforma costituzionale Giorgia Meloni. In effetti la girandola di ieri somiglia molto a una missione esplorativa. Sembra infatti che, sia nel merito che nel metodo, la premier non sappia ancora bene dove vuole andare a parare e aspetti di verificare la posizione reale delle diverse opposizioni prima di imboccare una strada. Di fatto sia ieri che alla vigilia ha lanciato un messaggio doppio e contraddittorio. Da un lato ha assicurato di voler cercare il dialogo, e quando si tratta di ridefinire le regole dovrebbe trattarsi di una scelta obbligata. Dall'altro però ha già indicato verso quale approdo intende muovere chiarendo in anticipo che se le opposizioni non la seguiranno la maggioranza procederà da sola.

È ovvio che messe così le cose ogni dialogo diventa quasi impossibile mentre sarebbe stato facile aprire la trattativa senza condizioni preliminari salvo poi fare blocco, con tutta la maggioranza e i centristi, su un'elezione diretta. Ma per muoversi in questa maniera Meloni dovrebbe fidarsi ciecamente della sua maggioranza e chiaramente non è questo il caso. Il non detto di questo percorso riformatore, che non si può dire sia partito nel modo migliore, è forse questo. La coalizione aveva in programma l'elezione diretta del presidente della Repubblica, un presidenzialismo propriamente detto. Ma quello è un terreno scivoloso per molti motivi: bisognerebbe rivedere l'intera seconda parte della Costituzione, roba quasi più da Assemblea costituente che da Bicamerale, e si tratterebbe di un lavoro di anni. In secondo luogo con il capo dello Stato di mezzo l'esito del referendum confermativo sarebbe tutt'altro che certo. Al contrario sarebbe del tutto in forse.

L'elezione del premier, che a propria volta implica parecchi problemi tecnici, è una mediazione preziosa ove il grosso delle opposizioni accettasse di discuterne, molto meno con Pd e M5S inamovibili e ostili. La Lega ha infatti gioco facile nell'impuntarsi chiedendo garanzie sul ruolo del Parlamento che in effetti, a fronte di un premierato troppo forte, persino se non elettivo ma a maggior ragione se basato su un voto popolare, sarebbe ridotto ai minimi termini. Il Carroccio non ha perso tempo e prima ancora che iniziassero i colloqui di ieri a Montecitorio ha messo le mani avanti: «Nel programma eravamo d'accordo sul presidenzialismo. Se ora si pensa al premierato bisogna garantire il ruolo del Parlamento». In privato i leghisti sono più espliciti: «Il programma diceva elezione del presidente. Se hanno cambiato idea vediamo cosa propongono». Chiarendo però subito che una proposta che prevedesse lo scioglimento delle Camere in caso di caduta del governo guidato dal premier eletto, o di sue dimissioni, non sarebbe accettabile.

In buona parte la Lega prende di mira il premierato per ottenere il varo entro l'anno dell'autonomia differenziata. La premier vuole che le due riforme marcino di pari passo ma i tempi della riforma costituzionale, anche procedendo a passo di carica, sarebbero comunque lunghi e il Carroccio è invece deciso a chiudere la partita dell'autonomia differenziata prima delle prossime elezioni europee.

Lo strumento preferito da Giorgia Meloni sarebbe una Commissione bicamerale ma, anche in questo caso, la disponibilità di Pd e M5S è pregiudiziale: imbarcarsi in un lavoro estenuante e lunghissimo sapendo già in partenza che l'accordo non si troverà sarebbe per la presidente del Consiglio solo controproducente, anche se l'ipotesi alternativa, quella di una riforma della Carta radicale operata dalle commissioni Affari costituzionali congiunti di Camera e Senato stride palesemente con ogni corretta logica istituzionale. Questa è però l'ipotesi privilegiata dalla ministra per le Riforme Casellati, molto innervosita negli ultimi giorni dal protagonismo della premier anche nel suo campo. Con una maggioranza infida e un'opposizione riottosa, però, sarà probabilmente questa la sola via percorribile, ed è quella peggiore.

Il piede sbagliato con il quale sia governo che opposizione, soprattutto il Pd, sono partiti è tutto nella paroletta «eleggibilità» : il governo la ha resa conditio sine qua non. Pd e 5S hanno fatto la stessa cosa chiedendo che l'elettività fosse esclusa a priori. È, da entrambe le parti, l'atteggiamento di chi si prepara a un'ordalia referendaria ma è anche l'atteggiamento opposto a quello di chi mirasse a ricostruire un'architettura istituzionale smantellata e vacante da decenni.