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«La situazione è chiara», spiegava due giorni fa un dirigente leghista di primissima fila, con espressione tanto sicura quanto allarmata, mentre montava l'onda del Russiagate all'amatriciana. «E' una manovra – entrava nel dettaglio il leghista – per arrivare a un governo con dentro tutti tranne noi, che durerebbe per l'intera legislatura». Inutile strabuzzare gli occhi e segnalare che per tenere Berlusconi, Zingaretti e Di Maio insieme per anni ci vorrebbe, più che Savoino, il mago Merlino. Quando si arriva al complotto anche dirigenti di vasta e provata esperienza, nella politica italiana, soccombono al fascino della trama occulta.
In questo caso, poi, di possibili trame internazionali ce ne sono a bizzeffe. Quella già citata non è infatti la sola. C'è chi subodora lo zampino di Putin nel fattaccio, un po' per “punire” l'avvicinamento dell'amico padano a Donald Trump, un po' per offrire lo scalpo del ruggente ai nuovi amici tedeschi. In fondo anche lì è in corso un riavvicinamento, e di maggior momento rispetto all'idillio tra Salvini e the Don. Ma non manca chi invece individua proprio nella Casa Bianca la regia dello scandalo, con l'obiettivo di rendere definitivo il divorzio tra il ruggente leghista e l'orso russo. Manovra un po' macchinosa, impossibile negarlo, ma appunto: di fronte al complotto nessun intrigo, per gli eletti come per gli elettori italiani, suona mai del tutto incredibile.
Neppure si può dire che i leghisti, al momento sotto tiro, siano di solito in cima alla classifica della paranoia politica, anche se quando esplose il caso Siri un pensierino e forse qualcosa in più sulla singolare coincidenza tra la scottante inchiesta e l'approssimarsi delle elezioni europee lo avevano già fatto. Ma su quel podio campeggiano comunque i soci a cinque stelle, che di complotti a loro danno ne sospettano a mazzi. Il disastro di Roma? «Un complotto dei poteri forti, che bruciano autobus e impediscono di smaltire rifiuti per togliersi di torno la sindaca più onesta». Il declino elettorale? «Una manovra dei media nazionali e internazionali, e dei loro potenti padroni, per nascondere i risultati di Di Maio». Le asperità incontrate nella missione di quadrare il cerchio dei conti pubblici: «Un sabotaggio dei tecnici del ministero dell'Economia» . Non che chi oggi è all'opposizione possa scagliare pietre di sorta. Renzi ha inanellato per anni una sfilza di errori politici, ma la responsabilità della sconfitta l’ha sempre attribuita al sabotaggio dei gufi, all'esterno e soprattutto all'interno del suo partito. Berlusconi ha speso un paio di decenni oscillando tra la denuncia di svariati golpe imbastiti dalla magistratura rossa e quella di un intrigo internazionale ordito tra Bruxelles, Berlino e Parigi. Salvo poi convertirsi negli ultimi anni a un europeismo in stridente contrasto con quelle non lievi accuse.
Il problema non sta nel tentativo di scaricare ogni responsabilità da parte delle varie forze politiche, che in Italia raggiunge in effetti vette toccate di rado ma nel complesso fa parte di una liturgia politica comune a tutti e ovunque. Il punto dolente è che, nove volte su dieci, a quei complotti i leader politici credono davvero. Da questo punto di vista la distanza tra rappresentati e rappresentanti è quasi inesistente, e forse non potrebbe essere diversamente dal momento che sono cresciuti entrambi in una cultura convinta che nulla sia mai come sembra, che i burattinai siano sempre nell'ombra, che la stessa assenza di prove di un presunto complotto dimostri non che il complotto è inesistente ma, al contrario, l'estrema potenza dei congiurati che riescono anche a distanza di decenni a occultare ogni traccia dei loro misfatti.
Non è una faccenda recente. Affonda le proprie radici nella prima Repubblica e nella sua decadenza. Nella P2, nella stagione sanguinosa delle stragi, nei presunti “misteri del caso Moro”. Poggia sull'assunto pasoliniano diventato poi a tutti gli effetti motto nazionale: “Io so anche se non ho le prove”. I risultati sono doppiamente disastrosi: prima di tutto perché intere strategie politiche finiscono spesso per essere impostate con la convinzione di dover fronteggiare non solo e non tanto i rivali politici conclamati ma registi che agiscono nell'ombra. In secondo luogo, e soprattutto, perché quella convinzione, proprio perché delegata a rassicurare se stessi ancora più che a fornire alibi agli occhi degli elettori, finisce per impedire di fare i conti con la realtà. E rende i problemi irresolubili.