Su una cosa al Senato sono in realtà tutti d'accordo, quando si parla del ddl Zan: quello tentato martedì scorso dal presidente leghista della commissione Giustizia Andrea Ostellari è stato, indipendentemente dal suo esito, un vero tentativo di mediazione e non un trucco per affossare la legge. Non si tratta di un particolare secondario. Proprio Ostellari e la Lega sono stati negli ultimi mesi, da quando a novembre il testo della legge arrivò dalla Camera a palazzo Madama, i più attivi e solerti nell'operazione di ostruzionismo che ha impedito sinora di discutere e votare il ddl. Tra Lega e FdI, i due partiti più ferreamente ostili alla legge, non c'erano sostanziali differenze. Le cose sono cambiate e in modo del tutto palese. Nel breve dibattito in aula sulla calendarizzazione della legge la distanza tra l'intransigenza di FdI e la linea di mediazione della Lega è emersa tutta. Ostellari ha cercato di percorrere davvero la strada molto stretta in direzione di un possibile testo comune. A prenderla peggio di tutti è stato il suo compagno di partito Pillon che tutti descrivevano martedì nero come una notte senza stelle. Salvini ha chiesto a gran voce un accordo di tutti, e certo lo ha fatto anche perché nessuno vuole passare per omofobo e prendersi la responsabilità di affossare la legge. Ma non solo per questo come la posizione letteralmente ribaltata di Ostellari attesta. Intorno alla vicenda della legge che introduce le aggravanti di pena previste dalla legge Mancino anche per i reati dettati da omofobia, transfobia o discriminazione per i disabili si articola peraltro un gioco politico più vasto che coinvolge Renzi e Salvini. Il percorso di avvicinamento è vistoso. Se le voci che impazzano al Senato sono fondate, lo stesso testo proposto da Ostellari sarebbe stato messo a punto, nel week end, con un lavoro comune di Iv e dei leghisti. L'attenzione tende a concentrarsi sulle acrobazie di Renzi, basate sulla necessità di garantirsi qualche seggio nel prossimo e sforbiciato Parlamento. Ma l'impatto sull'identità oggi incerta del Carroccio è più incisivo.Per spiegare il rifiuto di trattare con Salvini, il segretario del Pd Letta ha affermato ieri che «non ci si può fidare di chi sta con Orban»: seguito o strascico della polemica sulla Lega che «un giorno sta con Draghi e quello dopo firma il manifesto di Orban». La contraddizione è reale ma sarebbe un errore considerarla solo come prova di doppiezza e ambiguità. Proprio il doppio e per moli versi contraddittorio schieramento di Salvini illustra invece il dilemma della Lega, il bivio di fronte al quale si trova in stato di palese incertezza e indecisione. Per la Lega la decisione di appoggiare il governo Draghi è stata più traumatica di quanto non sia apparso. È certamente vero che è stata una scelta indirizzata, se non imposta, dal suo zoccolo duro, dall'elettorato delle regioni del nord attento alla sostanza molto più che all'ideologia. Ma è altrettanto vero che l'ondata di consensi che nei sondaggi aveva portato appena un paio d'anni fa Salvini oltre il 30 per cento dei voti era in larga composta da un elettorato diverso da quello zoccolo duro, molto più attento al messaggio ideologico e dunque attratto oggi più da FdI, che su quel fronte non si è spostata di un millimetro, che non dal "moderato" Salvini, come il travaso elettorale registrato dai sondaggi dimostra. Quell'ondata, peraltro per definizione effimera, è però oggi già rifluita e molto difficilmente tornerà al capo leghista. Il rischio di una vittoria elettorale della destra ma con Meloni prima arrivata e dunque destinata a occupare palazzo Chigi è inoltre concreto. Proseguire sulla strada della trasformazione della Lega in una sorta di "partito populista moderato" è certamente un azzardo. Ma lo è anche e altrettanto, per Salvini, restare ancorato a un fonte sovranista rigido del quale si avvia non essere più il principale esponente. La scelta moderata costerebbe alla Lega consensi e il dissenso forse anche estremo della sua ala più dura. Ma non è detto affatto che tornare al quadro di qualche anno fa restituirebbe a Salvini i voti (peraltro virtuali) perduti e che il dissenso sarebbe meno difficile da reggere, dal momento che coinvolgerebbe la base strutturale e non transitoria della Lega. Come il leader leghista scioglierà il rovello nessuno oggi può saperlo. Ma un elemento che avrà il suo peso è già certo: tra l'essere il numero due di Giorgia Meloni e l'essere il leader del principale partito a sostegno di Mario Draghi anche dopo le prossime elezioni non ci sono dubbi su cosa Matteo Salvini preferirebbe.