Il tema è serio. Quale interesse potrebbe avere un cittadino di lingua, cultura, religione diversa dalla nostra verso radici e matrici identitarie di un paese che in origine non era il suo? Non si corre il rischio per questa via di alimentare la riduzione della complessità sociale, cito l’analisi colta del professor Cofrancesco, a “interessi e diritti individuali, ovvero a economia ( universalismo del mercato, di matrice anglosassone) e a diritto ( universalismo giuridico di matrice francese e illuminista)”?

Dal direttore di questo giornale sono venute alcune pacate obiezioni, non le riprendo se non nel passaggio sulla scarsa consuetudine di parecchi italiani col lascito della cultura secolare sopra la quale stiamo seduti. Aggiungo che troppo scontata suonerebbe la battuta su chi sia più prossimo al monito di Beccaria quanto alla giusta proporzione della pena inflitta in rapporto alla colpa recata.

Se un ministro dell’Interno twittatore compulsivo di “bestie” da “far marcire in galera” o una qualunque studentessa Erasmus incuriosita dalla tradizione di un illuminismo fiorito anche sulla penisola, dirottato a Napoli sul sentiero dell’economia civile e ancorato a Milano sui presupposti del futuro stato di diritto.

Ma lasciamo considerazioni così generiche sullo sfondo. Il cuore del problema è capire cosa davvero possa e debba significare sentirsi partecipi e soggetti del luogo dove si sceglie di costruire il proprio sé. Perché poi stiamo parlando di chi in Italia nasce o vi arriva in età precocissima, e nonostante ciò non può dirsi italiana o italiano e appartenere con coscienza e convinzione a una medesima comunità di senso, lingua e destino. Ora, una prima questione, e sul punto convergono esperti di varia estrazione, è di ordine demografico. Spiace dirlo, ma siamo un paese vecchio e che invecchia ogni anno di più. Non cito i dati sulla presenza a oggi di immigrati regolari con quanto ne deriva sotto il profilo del saldo attivo tra gettito entrante e spese erogate in servizi di cura e previdenza. Il punto è che la domanda di manodopera, non tutta e solo a bassa qualifica, da qui a mezzo secolo tenderà a incrementare e anche se l’argomento suona irrilevante ai fini della “pacchia da finire” e i “porti da chiudere” chi verrà dopo di noi, volente o meno, dovrà farsene carico, non come un handicap, al contrario come sola opportunità di tenere in piedi il nostro welfare sgangherato.

Secondo aspetto. Parliamo molto, non dico troppo ma molto, di protezione e sicurezza. Credo balzi agli occhi con qualche evidenza che un numero maggiore di persone regolarizzate nel loro legame con diritti e doveri di cittadini non ostacoli, anzi favorisca un grado più alto di rispetto e condivisione delle regole. Tradotto, se sulla base di criteri certi allargo il perimetro di quanti si sentono accolti e partecipi di uno spirito di comunità – senso dello Stato, primato della legalità, tutela della dignità individuale – a trarne beneficio non sono solo i destinatari di un “freddo” provvedimento amministrativo, ma l’insieme della società capace, anche per questa via, di mostrare la forza rassicurante dell’inclusione.

E veniamo alla chiave più culturale, per altro centrale nel confronto sollevato. Scrivo sull’argomento con “zero tituli” direbbe il Mister, quindi se azzardo un paio di notazioni è solo per condividere eventuali critiche. Mettiamola così, dove parte e dove si arresta il senso di appartenenza a una comunità? Perché il termine giusto a me pare questo, comunità, da non confondere o sovrapporre all’altro, nazionalità, foriero di equivoci potenzialmente devastanti. Stiamo parlando di un accesso, regolato e mediato, alla cittadinanza. La nazionalità non si acquisisce per norma, vi si appartiene attraverso processi ben più complessi, del resto non per caso le tragedie peggiori del ‘ 900 di questa parabola recano tracce indelebili.

Forse nascere su una terra di confine, per altro il più luttuoso tra i nostri, qualche impronta ha lasciato. Intendo nell’avere messo in luce quanto interessi e passione verso la “cultura” di cui si è o si diviene parte intreccia biografie singole e collettive in grado quei sentimenti di strutturare. Voglio dire che la miscela capace di suscitare motivazioni e identificazione con una storia condivisa non sempre transita dal sangue e dal suolo, ma può derivare da fattori che con difficoltà riusciamo a condensare in categorie rigide di nascita e madrelingua. E ciò al netto di quella autorevolissima citazione secondo cui dalla contaminazione tra sangue e suolo si produce solamente il tetano. Per dire, forse Cheick Tidiane Gaye è nome sconosciuto ai più. Lui vive ad Arcore ( vai a studiare le combinazioni!), è amante della poesia, scrive lui stesso dei versi. Nativo del Senegal ogni anno organizza un festival letterario e coi pochi proventi invia centinaia di libri di letteratura italiana al dipartimento di italianistica dell’università di Dakar dove, per inciso, amano non poco la lingua di Dante.

A conclusione, non credo sia convincente ravvisare in un provvedimento tutto sommato innocente come lo ius soli un indebolimento dei motivi che possono rendere più fragile l’identità culturale di una nazione, la nostra, sorta ben prima dello Stato che la identifica. Anche perché le ragioni di quella debolezza vanno cercate altrove, in una scuola largamente disarmata per risorse e qualità o in una drammatica regressione del linguaggio delle élite in troppi ambiti del discorso pubblico e della dimensione sociale. E comunque, mi si perdonerà la punta di demagogia, bene vengano le risorse necessarie a celebrare il Poeta, però non sembra necessario allo scopo decurtare i fondi destinati a scuola e sanità. Prendiamoli andando a snidare un altro po’ di grandi evasori, perché purtroppo di quelli, italiani sino al midollo, ne abbiamo in abbondanza. Otterremmo due vantaggi in un colpo solo e di questi tempi non è cosa da buttar via.