Matteo Renzi assicura che la decisione della Consulta è assolutamente positiva perché, spiega, «il referendum costituzionale non riguarda la legge elettorale. E comunque siamo disponibili a modifiche». In realtà la scelta di rinviare al prossimo anno la discussione delle eccezioni di costituzionalità sulla riforma legittimamente può essere valutata con un metro opposto. Lo fa lo schieramento antirenziano, FI in testa, e non senza ragioni. Se infatti la Corte ha deciso il rinvio per non interferire sulla campagna elettorale referendaria è proprio perché l'impatto di un via libera o di una bocciatura delle eccezioni di costituzionalità avrebbe per forza di cose influito sull'orientamento dei cittadini. Forzando con un di più di semplificazione, si potrebbe anche osservare che la Consulta sta lì per decidere, non per rinviare. Far svolgere prima il referendum e poi pronunciarsi sull'Italicum finisce in sostanza per scaricare sui cittadini scelte che per motivazioni più o meno condivisibili, la politica e gli organi di garanzia, ciascuno per la loro quota parte, non intendono fare.Del resto è piuttosto consolatorio immaginare che lo scontro sull'Italicum sia stato depotenziato e dunque non se parli più fino al 2017. Sotto questo profilo, è indicativo il fatto che la discussione alla Camera della mozione presentata da Sinistra Italiana contro l'attuale legge elettorale - e che si concluderà domani con un voto - si sia arricchita del contributo dei Cinquestelle che, in un loro documento, non solo chiedono la cancellazione dell'Italicum ma si pronunciano a favore di un meccanismo di ripartizione dei seggi di tipo proporzionale, con le preferenze e senza alcun premio di maggioranza.La mossa dei grillini è insidiosa. Intanto perché si ammanta di disinteresse: sono in tanti, infatti, quelli che chiedono l'abolizione del doppio turno convinti che favorirebbe i pentastellati a danno del Pd. Ciò nonostante i Cinquestelle reclamano lo stesso la cancellazione della riforma. In più il proporzionale è un sistema che, al di là delle sottigliezze comunicative, favorisce i partiti anche piccoli, stimolando l'emersione di differenziazioni con annessa proliferazione di liste. Logico che possa trovare sponsor trasversali in tutti gli schieramenti e nei relativi gruppi parlamentari, da Ala a Scelta Civica per arrivare fino alla sinistra dem. Piuttosto è singolare che i difensori della purezza identitaria del Movimento, fondata sull'impegno a scartare qualunque tipo di alleanza, virino poi su un sistema che, a patto non si raccolga il 51 per cento nelle urne, di fatto costringe alle coalizioni o agli accordi stipulati in Parlamento dopo il voto. Per intenderci: se i Cinquestelle diventassero primo partito ma senza la maggioranza dei seggi in Parlamento, quale sarebbe il loro atteggiamento? Oppure si dovrebbe creare una maggioranza che amalgamasse tutti i perdenti lasciando fuori chi ha vinto le elezioni pur di garantire ai grillini i comodi scranni di opposizione? Il premier taglia corto: «Hanno fatto la loro scelta. Aspettiamo Berlusconi e Salvini e poi tireremo le somme».Convulsioni dell'attuale fase politica. Che troveranno raffigurazione anche oggi a Montecitorio. Mentre infatti il Pd, sotto la spinta di Ncd, prova a varare un generico documento con impegni poco vincolanti riguardo a eventuali modifiche dell'Italicum, la minoranza interna annuncia che comunque non voterà documenti che non contengano «tempi certi e punti ben definiti» sui quali intervenire per cambiare la legge elettorale. Un guazzabuglio? Forse. Ma è il medesimo che va in scena da mesi: durerà fino all'apertura delle urne.Si capisce, insomma, come mai il premier cerchi altre argomentazioni per far passare i messaggi politici che gli stanno a cuore. Il duro scontro con la Ue e la Germania, a partire dal tema drammatico dell'immigrazione per finire a quello più prosaico ma non meno ostico della flessibilità sui conti, va presumibilmente letto in questa prospettiva. Solo che si tratta di un'arma a doppio taglio, e non solo perché trasferire le problematiche europee in ambito interno e viceversa non è mai un buon affare.Nel caso specifico va rilevato che alla guida dei governi europei ci sono gli stessi leader che in maniera più o meno esplicita fanno il tifo perché vinca il , convinti - allo stesso modo delle maggiori agenzie di rating - che un successo del No destabilizzerebbe il Paese. Opinione caldeggiata alla grande, con annesso codazzo di polemiche, anche dall'ambasciatore Usa in Italia, John Phillips. Ma se l'Europa (e l'America) è alleata decisiva per far prevalere il Sì, diventa complicato capovolgere in corso d'opera quell'immagine tramutandola in consesso matrigno e desideroso di umiliare l'Italia. Per di più l'esercizio si trasforma in tentativo acrobatico se l'attacco è motivato dall'intenzione di catturare consensi anti-Ue attingendoli dal serbatoio del centrodestra o dal campo grillino. Il perché è palese: così facendo, politicizzando cioè la polemica contro Bruxelles e Berlino, la tanto vituperata personalizzazione del referendum con fatica cacciata dalla finestra rientrerebbe con forza dalla porta. E le urne della consultazione popolare tornerebbero a rivestirsi dell'abito plebiscitario da sfoggiare sul crinale pro o contro Renzi.