«Buongiorno, onorevole Maiolo. Posso passarle il dottor Berlusconi? ». È cominciata così e non è mai finita. Sono passati ventitré anni e un bel po' di tempeste in mezzo. Fin da quando -eravamo nel 1993- avevo scritto sul Giornale «Perché io compagna abbandono i compagni» ed era stata la vera rottura. Non tanto con Rifondazione comunista (partito al quale non avevo mai voluto iscrivermi, pur essendo entrata in Parlamento come indipendente in quella lista, ma avendo preferito la tessera di Pannella), ma proprio con la sinistra intera.La Giustizia, con la lettera maiuscola, era la mia sorella siamese che in certi salotti politici non aveva cittadinanza. E l'avevo capito presto, non appena avevo messo piede alla Camera. Era stato chiaro dallo sprezzo con cui Massimo D'Alema mi aveva apostrofato un certo 8 marzo, liquidandomi con un «ah, tu sei quella compagna che ha quella posizione bizzarra sulla giustizia», fino a Lucio Magri che, dopo un mio appassionato intervento in una riunione del gruppo parlamentare di Rifondazione, aveva detto con insofferenza «Adesso però parliamo di politica». Se il mio garantismo aveva avuto successo, grazie all'appoggio di Rossana Rossanda, nella redazione del Manifesto, in Parlamento, finché rimasi con la sinistra, fu un buco nell'acqua.Tre furono le telefonate che mi cambiarono la vita. Dopo la lettera al Giornale, quella del professor Antonio Martino (mio mito come liberale antiproibizionista) e Tiziana Parenti (Pubblico ministero a Milano che, benché di sinistra, si era messa contro la sinistra forcaiola di Mani Pulite), e più avanti quella di Silvio Berlusconi. Naturalmente io non sapevo ancora che Martino sarebbe diventato la tessera numero due di Forza Italia e Parenti la Presidente della Commissione bicamerale antimafia. Ma nelle loro parole di condivisione con quel che avevo scritto sentii per la prima volta quell'aria di famiglia che non avevo mai respirato nei banchi di Rifondazione, dove l'invidia si tagliava a fette e nessuno mi aveva mai offerto un caffè.Così andai a bere un bicchier d'acqua (non fredda e non gasata) in via dell'Anima, nel centro storico di Roma, dal dottor Silvio Berlusconi. Non lo conoscevo, ero incuriosita (anche perché sono milanista da quando ero bambina) e un po' sorpresa per l'invito, non ero proprio il suo tipo, scapigliata e ricca più di vizi che di virtù com'ero. Infatti non ci siamo proprio innamorati, quel giorno. Io fumavo una sigaretta dopo l'altra, cosa che lui detesta. Lui mi chiese subito qualcosa che io considerai un insulto. «Signora - chissà perché gli uomini vengono chiamati onorevole o dottore o professore eccetera, ma mai signore - lei che cosa intende fare per le donne? ». «Niente», risposta secca. Un attimo di sincero stupore. «Io mi occupo di giustizia, non di donne». Ero femminista, e pure offesa. Scoprii in seguito, ma lui non me lo disse, che era rimasto colpito dalle mie costanti visite nelle carceri. Sapeva chi ero e quali fossero le mie battaglie in Parlamento. Per questo aveva voluto conoscermi. E nel corso degli anni io "compagna" trovai non solo più umanità ma anche più ascolto sui temi dei diritti e delle garanzie in Forza Italia di quanto non ne avessi mai potuto condividere all'interno della sinistra.Dalla candidatura, che pure lui mi offrì, in avanti, sono sempre stata trattata come un uomo, in un certo senso anche con più rispetto, da Silvio Berlusconi. Che non è per niente macho, ma che anzi ha in sé una forte componente femminile che spesso prevale su quella maschile. È il "capo" più democratico che si possa desiderare all'interno di una comunità. In tutti questi anni solo una volta mi ha telefonato per una piccola "censura". Andavo spesso alla trasmissione tv di Paolo Liguori "Fatti e misfatti". In un certo periodo avevamo un po' preso di mira la Fiat e Berlusconi era infastidito dalle continue telefonate di protesta di Cesare Romiti. Così mi chiamò, e scusandosi molto mi chiese se potevamo "alleggerire". Cosa che io feci senza protestare e senza sentirmi condizionata da un leader che ha sempre lasciato il massimo di libertà a chiunque abbia lavorato con lui.Gli voglio ancor oggi molto bene. Ho avuto mille motivi per arrabbiarmi. Per il programma di riforme non realizzato sulla giustizia e anche perché non sopportavo che lui si fosse fatto infilzare come un tordo dal combinato disposto tra una magistratura militante composta da invidiosetti ideologici e quattro ragazzotte ambiziose e sfruttatrici. Tanto che a un certo punto l'ho anche abbandonato. Ma sono tornata e sono rimasta. Faccio parte di quello sparuto gruppo di persone che lo chiamano Silvio e non Presidente. Quindi Buon compleanno, Silvio.