Memore del voto non credo fideistico ma ragionato a favore del Pd di Enrico Letta annunciato da Giuliano Ferrara prima delle elezioni di settembre, senza nulla togliere all’amicizia e alla simpatia arcinote per Silvio Berlusconi, del quale era stato nel 1994 ministro per i rapporti col Parlamento; memore, dicevo, di quella scelta elettorale di Giuliano Ferrara, ho preso lì per lì sul serio «il processo ai cento giorni» di Giorgia Meloni sparato ieri sulla prima pagina del Foglio. Di cui il fondatore è rimasto comprensibilmente e umanamente l’anima, pur avendo lasciato ormai da tempo la direzione a Claudio Cerasa.

Il processo, si sa, senza essere un giurista, presuppone un’accusa dalla quale un imputato deve difendersi. E la presidente del Consiglio in veste di imputata ci stava, leggendo quel titolo e pensando - ripeto - al partito di opposizione preferito da Giuliano, pur sapendo che esso avrebbe sicuramente perduto le elezioni dopo avere rotto con i grillini di Giuseppe Conte, o dopo che i grillini di Giuseppe Conte avevano rotto col Pd, e dopo che quest’ultimo a sua volta aveva rotto con Carlo Calenda e Matteo Renzi pur di non scaricare quel sostanziale prefisso telefonico costituito dai rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.

Ma quel titolo - Il processo, ripeto - sul serio non doveva essere preso perché nient’altro è stato che un mezzo esame di maturità condotto da quindici tra politici e professori veri, emeriti o finti, includendo fra questi ultimi, senza volere mancare loro di rispetto, giornalisti abitualmente alle prese con la politica e dintorni. Eccone l’elenco nello stesso ordine rigorosamente alfabetico rispettato dal Foglio raccogliendone giudizi e umori sui primi tre mesi e dieci giorni del primo governo di destra- centro nella storia d’Italia, in più presieduto da una donna: Carlo Calenda, Sabino Cassese, Alessandro Cattaneo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Oscar Giannino, Siegmund Ginzberg, Camillo Langone, Marco Lodoli, Mariarosa Mancuso, Andrea Minuz, Saverio Raimondo, Nicola Rossi, Alessandra Sardoni e Serena Sileoni.

Da cronista di una certa esperienza, diciamo così, provo a sintetizzare al massimo giudizi e umori, ripeto, di costoro scusandomi in anticipo se a qualcuno di essi risulterò troppo sintetico, sino a capovolgerne addirittura il pensiero.

Carlo Calenda ha gridato il suo no accusando la Meloni di «non aver fatto nulla», pur avendo egli mostrato qua e là nelle cronache politiche delle scorse settimane qualche apprezzamento, o disponibilità addirittura a darle una mano dall’opposizione. Sabino Cassese mi è sembrato propendere per il sì con quella convinzione espressa che la Meloni sia «ammirata da chi sa che vuol dire lavorare sodo e avere una figlia piccola». Alessandro Cattaneo da capogruppo di Forza Italia alla Camera non poteva certo smentire la fiducia accordata al governo in quella sede. Né poteva contraddire il suo no parlamentare Giuseppe Conte, che ha rimproverato alla Meloni «mancanza di coerenza e di coraggio».

Luigi Di Maio, cambiando lettera, non poteva che confermare la rottura con Conte apprezzando il governo non foss’altro sul versante non secondario della politica estera, di cui l’ex capo grillino si è fatta una certa esperienza alla Farnesina come ministro. Sostanzialmente negativo è stato invece Oscar Giannino per via della maggioranza che è «un cavallo che scarta in direzioni opposte».

Per Siegmund Ginzburg, al contrario, «ci si può accontentare» perché «è meglio andare a zig zag che a fondo». Camillo Langone vorrebbe che la Meloni «festeggiasse i 1000, anche 10 mila giorni», che sarebbero poi i classici «100 di questi giorni» che si augurano nelle dovute circostanze agli amici. Per Marco Lodoli invece quelli già trascorsi sono giorni che bastano per dire che la Meloni «sembrava un falò ed è una candela già mezza sciolta».

Mariarosa Mancuso, cambiando ancora lettera, è abbastanza curiosa di vedere come andrà a finire la presidente del Consiglio «con tutti i bastoni fra le ruote che le mettono gli alleati». Andrea Minuz non ha invece da aspettare ancora per promuovere la Meloni ad una «Garbatella da esportazione». Saverio Raimondo, poi, le ha riconosciuto il merito, per un uomo di sinistra, di «circonvenzione di fascisti», visto dove sta dimostrando di saper e voler portare gli inconsapevoli neri in mezzo ai quali sarebbe cresciuta. Un bel sì, quindi, il suo come quello di Nicola Rossi, per il quale quello della Meloni è «tutt’altro che un vuoto». E «non è poco quello che ha fatto».

Per ultime, alla lettera s, Alessandra Sardoni ha visto nella premier, ma forse ancora più in alcuni suoi ministri, «un po’ di narcisismo e revanscismo» che farebbero meritare un no al suo governo. Sarebbe troppo presto esprimere un giudizio invece per Serena Sileoni, che preferisce quindi stare ancora un po’ alla finestra a guardare.

Complessivamente, se so ancora far di conto, i sì alla Meloni risultano 8, i no 5 e i voti di attesa, o di astensione, 2. Un risultato che forse nel problematico, a dir poco, titolo degli amici del Foglio sul «processo» avrebbe dovuto essere indicato, come all’interno nel titolo anodino di «Bilancio di una luna di miele».