La montagna da scalare per i promotori dei referendum dell’ 8 e 9 giugno è ovviamente l’astensionismo, montagna che aumenta di altezza ad ogni tornata elettorale, ma, accanto al trend calante della partecipazione al voto, noto sin dal primo momento, s’è materializzato un ulteriore ostacolo, forse non ben messo in conto, vale a dire il fatto che questi referendum toccano temi mai così poco rilevanti come in questi mesi.

Tre dei cinque quesiti riguardano infatti licenziamenti e lavoro a termine e, più in generale, alcuni aspetti del Jobs act, ma, proprio ora, sia l’occupazione in generale che quella a tempo indeterminato, hanno toccato livelli record.

Lo vediamo nella tabella, che riporta i dati ISTAT degli ultimi trimestri del 2014 e del 2024. Dati distanziati di dieci anni, il decennio del jobs act, che entrò in vigore a marzo del 2015, subito dopo il quarto trimestre 2014. Facile vedere che l’occupazione è di molto cresciuta, passando dai 22 milioni scarsi del 2014 agli oltre 24 milioni di oggi, con un tasso di disoccupazione annuale più che dimezzato. L’aumento di occupazione di circa 2 milioni, inoltre, è quasi interamente da attribuire al lavoro a tempo indeterminato; crescono anche, ma in misura molto minore, i lavoratori a tempo determinato, ma diminuiscono i lavoratori indipendenti. E il lavoro autonomo, accanto a solidissime realtà professionali è stato, soprattutto negli anni passati, un serbatorio di lavoro precario. Cresce il lavoro, quindi, e cresce il lavoro stabile.

Tutto merito del Jobs act? I suoi sostenitori, a partire da Renzi, tendono rivendicarlo orgogliosamente, ma la realtà è più complicata, perché questo trend italiano si registra anche nel resto d’Europa, con un crollo del tasso di disoccupazione nel corso del decennio, ed è un po’ arduo sostenere che sia merito del Jobs act. Detto ciò, però, non si può nemmeno affermare il contrario, e cioè che il Jobs act abbia portato disoccupazione e precariato, come invece i promotori del referendum, e Landini in primis, tendono a ripetere per cercare di convincere i riottosi a recarsi alle urne.

Il problema, per i promotori, è che i lavoratori queste cose le conoscono alla perfezione, vivendole quotidianamente, e sanno benissimo che oggi non è la disoccupazione il problema principale, anzi, così come non c’è un problema di precarietà maggiore che negli anni passati, tutt’altro. Il problema più pressante, oggi, sono i salari, particolarmente bassi, in certi settori specialmente, e, soprattutto, fermi al palo da anni con conseguente difficoltà per molti ad arrivare a fine mese: questi i temi ben presenti ai lavoratori. Ma richiedono altre soluzioni e risposte, dall’aumento della produttività allo sviluppo di settori avanzati e generatori di reddito: se in Italia chiudiamo fabbriche di auto per aprire bed and breakfast è difficile immaginare che i salari possano, mediamente, innalzarsi. È necessaria una nuova politica industriale, molti investimenti, sia pubblici che privati, metter mano alla formazione e all’istruzione, capitoli vastissimi e che richiedono tempo e pazienza e, in definitiva, interventi che mal si prestano ad essere riassunti in slogan e, meno che mai, decisi con un sì o un no.

Tutto ciò, come detto, è perfettamente noto ai lavoratori, soprattutto a quelli del settore privato: non manca occupazione, anche a tempo indeterminato, è scarsa la buona occupazione, in settori e imprese in sviluppo e crescita, innovative e a ridosso della frontiera tecnologica. E, quindi, con salari adeguati. I referendum, nel migliore dei casi, su tutti questi argomenti non incidono per nulla, nel peggiore distolgono da essi l’attenzione. Se, nelle intenzioni politiche, avrebbero dovuto essere uno strumento per compattare un eterogeneo campo largo su una piattaforma unitaria centrata sul lavoro e i suoi problemi, la sensazione è che si siano sbagliati argomenti e tempi. Dieci anni fa, giusti o sbagliati che li si potessero considerare, erano attuali, oggi non pare proprio e il quorum, considerato il doppio ostacolo dell’affluenza storicamente calante e dello scarso appeal dei quesiti, rischia di diventare un miraggio.