Matteo Renzi? «Dice tante cose ma non sempre corrispondono alla verità. Bisogna stare attenti a valutarle, mi ricorda, più giovane, altre personalità politiche con questa tendenza». Il referendum costituzionale? «Sul voto politico si è vincolati alla disciplina di partito ma sulla riforma costituzionale, sulla Carta fondamentale che riguarda tutti i cittadini non può esserci nessuna disciplina di partito, e ognuno vota secondo la propria coscienza. Io voto no». Il doppio incarico? «Renzi non può sommare la carica di premier e di segretario del partito. Del resto, Renzi non fa il segretario, il partito è abbandonato a se stesso». L’ultimo stoccata di Massimo D’Alema al premier va in scena in televisione. Ospite di Ballarò, il “leader Massimo” si diverte a sparare a pallettoni sul capo del suo partito. Col suo solito stile: sornione, saccente e ironico. L’ex presidente del Consiglio, in realtà, è l’unico esponente democratico che può permettersi il lusso di criticare aspramente Renzi, l’unico a non aver nulla da perdere, l’unico vero rottamato da nuovo corso. D’Alema è libero di vendicarsi, e infastidire l’azione politica del capo dell’esecutivo è diventata missione. E il premier a volte ci casca: «Questa riforma nasce dal basso e vincerà se riusciremo ad arrivare nelle case di tutti gli italiani: perché i professionisti della politica sicuramente non gradiranno questo cambiamento», risponde Renzi tramite newsletter. Chissà se “baffino di ferro”, come lo definì Gianpaolo Pansa, si sarà scomposto. Del resto l’ex ministro degli Esteri non ha mai fatto mistero delle sue antipatia per populismi e “democrazie civiche”: «Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali. E finora non si conoscono società democratiche che hanno potuto fare diversamente». Era il 9 marzo del 1997 quando, dal Castello di Gargonza, l’allora segretario del Pds pronuncia queste parole, scagliandosi contro l’Ulivo, definito un cartello elettorale che «nessuno sa cosa sarà in futuro». Il “mercante fenicio”, soprannome affibbiatogli da Giovanni Agnelli, non poteva prevedere cosa sarebbe accaduto quasi vent’anni dopo in Europa col vento dei movimenti dal basso che avrebbero messo in discussione l’intero sistema partitico continentale.Errori di valutazione a parte, sembra che l’insofferenza D’Alema nei confronti di Renzi non sia solo figlia del rancore. L’impressione è che la “volpe del Tavoliere” (copyright Luigi Pintor), non regga al riflesso della sua immagine allo specchio. Perché Matteo non è altro che un Massimo meno colto e più sbrigativo. Ma alla prova dei fatti i due si somigliano molto. Buona parte delle accuse che oggi “sarcasmo da Rotterdam” (nomignolo inventato da Giuliano Ferrara) muove al presidente del Consiglio appartengono alla storia politica del primo premier ex comunista. L’elenco delle affinità sarebbe lunghissimo, ma per rendere l’idea basta concentrarsi sugli aspetti più rilevanti. Provare a sfondare al centro amputando i rami sinistri della coalizione? Un’idea di D’Alema. La riforma del titolo V della Costituzione? Ci provò il governo D’Alema. E la riforma del mercato del lavoro? Iniziò con D’Alema. Il monocameralismo? Un desiderio di D’Alema. E il renziano patto del Nazareno? Fratello minore del dalemiano patto della crostata. Sono solo alcuni tratti della somiglianza impressionante tra i due – negata da entrambi - a cui si potrebbe aggiungere l’idea sul ruolo del segretario: «Non esiste in Europa un Paese, democraticamente maturo, in cui il leader del maggiore partito non sia nello stesso tempo il capo del governo. Solo in Italia non è così, ed è una anomalia da correggere. la vera sostanza della partitocrazia sta proprio in questa anomalia». Sembrano parole appena uscite dalla bocca del segretario del Pd, ma vennero pronunciate nel 1997 dal segretario del Pds. Perché la politica, si sa, è questione di punti di vista.