Come trasformare la mancata tragedia in una catarsi collettiva nella pacificazione di un Paese spaccato in due, teatro di uno scontro politico furibondo, che da tempo assume i contorni di una piccola guerra.

Le fortunose traiettorie del caso che, per pochi millimetri, hanno risparmiato la vita di Donald Trump mentre comiziava sul palco di Butler, costituiscono infatti un’occasione unica per ricucire la trama sbrindellata del rispetto reciproco tra i partiti, per ridurre la frattura morale tra le due Americhe. L’occasione per guardarsi allo specchio e rinunciare alla cruenta battaglia tra fazioni, oggi foriera di cupe suggestioni e distopie come magistralmente raccontato dal regista Alex Garland nel recentissimo Civil War. L’America ama raccontarsi con ossessione ed esasperazione con la consapevolezza che spesso la brutalità della realtà supera l’immaginazione stessa.

Anche perché il week end che poteva cambiare la Storia recente degli Stati Uniti è stato un compendio naturale delle patologie che da sempre affliggono la nazione: il feticismo delle armi da fuoco, la violenza politica (quattro sono i presidenti Usa assassinati, una dozzina quelli sfuggiti a un attentatop), l’alienazione mortifera dei suoi killer solitari, i tanti Thomas Matthew Crooks che emergono dal nulla di scantinati anonimi come angeli sterminatori, “mostri per caso”.

Ma allo stesso tempo è una testimonianza della sua vitalità estrema, della sua reattività, incarnata proprio dalla sorprendente reazione del candidato alla Casa Bianca Donald Trump, dal suo potente grido «fight!», dal quel pugno chiuso alzato con fierezza in cielo nonostante fosse appena stato colpito da un proiettile e avesse il volto ricoperto di sangue. Un’allegoria della forza e, probabilmente della vittoria stessa: il confronto con le movenze crepuscolari del povero Joe Biden, con la sua claudicante parabola diventa impietoso. Il presidente dem, nei suoi rari momenti di lucidità, ha accusato il suo rivale di essere un personaggio «pericoloso» per la nazione, un uomo con tentazioni eversive che non accetta le regole della democrazia. Questa narrazione è completamente naufragata sul palco di Butler.

Così The Donald approda convention repubblicana di Milwaukee, sorvegliata h24 da 1700 militari, rigenerandosi nella sua gente, accolto dai fan in delirio, da prescelto del Signore perché «dovevo essere morto», un supereroe capace di schivare le pallottole proprio come Neo, l’ “eletto” della saga cinematografica Matrix e di associare la propria salvezza a quella dell’America.

Scampato alla morte per un soffio, il tycoon sembra ora acquisire una saggezza oracolare che non è mai appartenuta alla sua storia e, tanto meno, alla sua dirompente e divisiva personalità. In tal senso le sue parole, per uno che ha fatto della guerriglia verbale la propria ragione politica lasciano davvero di stucco: «Voglio dirvi che è necessario abbassare la temperatura in politica nel nostro Paese. E voglio ricordare che al di là dei nostri disaccordi, non siamo dei nemici. Siamo dei vicini di casa. Siamo amici, colleghi di lavoro, cittadini e, soprattutto, siamo compagni americani».

In questa improvvisa e del tutto inattesa richiesta di dialogo c’è senz’altro un elemento strategico, funzionale alla campagna elettorale: essere sopravvissuto a un attentato del genere, immortalato da fotografi e tv in quelle che diventeranno tra le immagini più emblematiche del Secolo non può che far schizzare alle stelle la popolarità dell’ex presidente e sospingerlo di nuovo verso la Casa Bianca. E il diretto interessato lo sa benissimo: «Molte persone dicono che quella di sabato scorso a Butler è la foto più iconica che abbiano mai visto. Hanno ragione, di solito devi essere morto per avere un effetto del genere!».

Non c’è più bisogno di esasperare lo scontro, di alimentare il conflitto, al contrario sembra venuto il momento di cercare consensi al centro, tra quei conservatori moderati che non hanno mai accettato l’estremismo del tycoon, il che renderebbe praticamente certo il già probabile trionfo alle presidenziali di novembre. Interessi di bottega, dunque, dietro la scelta della moderazione.

Ma forse c’è dell’altro, qualcosa che riguarda la società americana nel suo insieme, i modelli di convivenza, la dialettica politica di una comunità lacerata da quello scontro permanente tra fazioni, da quel “bullismo” che ammorba la comunicazione politica di cui Trump è stato il primo responsabile e che ora ha la possibilità se non di riconciliarsi con i suoi oppositori, almeno tenere il confronto con civiltà.

A rendere ancora più dolce il bagno di folla di Milwaukee, il perfect monday come scrivono i media d’oltreoceano, le notizie che provengono dal fronte giudiziario, l’unico vero punto debole della campagna elettorale dell’ex presidente repubblicano: Aileen Cannon, giudice federale del sud della Florida ha infatti archiviato lo spinoso processo sul trasferimento illegale di file riservati dalla Casa Bianca alla residenza privata di Trump a Mar-a-lago. Cannon ha stralciato il procedimento per ragioni formali, spiegando cioè che il procuratore Jack Smith, titolare dell’inchiesta, avrebbe violato la Costituzione in quanto nominato in modo illegittimo, e cioè né dal presidente degli Stati Uniti, né dal Congresso. Smith farà ricorso ma il tutto slitterà dopo le presidenziali.

L’ennesima vittoria per Donald Trump che la scorsa settimana aveva esultato per la concessione di un’immunità parziale da parte della Corte suprema, in particolare per il processo in cui è accusato di «cospirazione», ossia di essere l’ispiratore dell’assalto armato all’edificio di Capitol Hill nel gennaio 2021.