È probabile che la battaglia politica sul salario minimo fissato a 9 euro lordi l'ora sia finita qui. Dopo la bocciatura del Cnel, al quale Giorgia Meloni aveva furbescamente delegato la scelta finale non volendo assumersi in prima persona la responsabilità di affossare una proposta molto popolare, lo spazio per lo scontro parlamentare è molto ridotto.

L'approdo in aula della proposta firmata da tutte le opposizioni, salvo Iv, era fissato per ieri. È slittato a oggi e la maggioranza è già decisa a votare il ritorno della legge in Commissione. La sessione di bilancio è alle porte e una volta avviato quell'iter per legge non potranno essere discusse leggi di spesa e il salario minimo rientra nel novero. Tutto slitterà all'anno prossimo e a quel punto sarà molto difficile riesumare la proposta di tutte le opposizioni, con la sola esclusione di Italia viva.

Il parere del Cnel ricalca perfettamente quello che era già stato anticipato dal governo: del salario minimo non c'è bisogno perché c'è già la contrattazione collettiva, che riguarda la stragrande maggioranza dei lavoratori, e anzi finirebbe per danneggiare proprio la contrattazione collettiva. In ogni caso il salario medio rientra a pieno titolo nella media accettata dall'Europa, essendo parti a 7 euro e mezzo l'ora. Le obiezioni sono numerose.

Il conto del Cnel è stato fatto basandosi sui dati Istat del 2019, data cronologicamente vicina ma storicamente lontana: non c'erano stati ancora il Covid, la guerra in Ucraina, la crisi energetica, l'impennata dell'inflazione e all'elenco si aggiungeranno presto le conseguenze pesanti della crisi in Medio Oriente. La media è stata realizzata tenendo conto di tutti i salari e non solo di quelli contrattati dalla principali organizzazioni sindacali: in questo modo anche entrate incomparabilmente più alte sono entrate nel conto e hanno fatto media. Ma soprattutto il problema è che un salario di 7 euro e mezzo lordi l'ora dovrebbe essere considerato comunque inaccettabile in uno dei Paesi più sviluppati del mondo.

All'ultimo momento cinque consiglieri nominati dal presidente della Repubblica avevano provato a introdurre un emendamento che, se accolto, avrebbe lasciato almeno aperto uno spiraglio per la futura introduzione di un salario minimo: proponevano una “tariffa retributiva minima” a tempo, dunque in via sperimentale, e limitata alle categorie considerate più deboli, le donne, i giovani e gli immigrati. L'assemblea del Cnel ha cestinato l'emendamento a larga maggioranza.

Alcuni appunti del governo sono effettivamente sensati e condivisi da Cisl e Uil, mentre la Cgil che era dello stesso parere nella scorsa legislatura si è convertita in extremis. Il rischio più volte paventato da Meloni di una trasformazione di fatto del salario minimo in un salario massimo, abbassando per molte categorie il salario invece di innalzarlo. La proposta necessitava dunque di una correzione, non di una soppressione però. La premier, dopo l'incontro di agosto con i leader dell'opposizione, si era infatti impegnata solennemente a presentare entro settembre una proposta complessiva di intervento sui salari. Settembre è passato, ottobre quasi pure e non se ne è proprio più parlato.

Con un tema così forte e così fortemente avvertito come urgente ovunque, l'opposizione aveva a disposizione uno strumento potente, che infatti ha costretto governo e maggioranza all'unica retromarcia dalle elezioni del 2022 a oggi. Aveva deciso di liquidare la faccenda in pochi minuti, con un emendamento soppressivo in Commissione: ha dovuto rinunciare, incontrare l'opposizione, affidarsi alle tattiche dilatorie, ricorrere all'arbitrato del Cnel per pararsi le terga. Non si può dire che il Pd di Elly Schlein abbia perso l'occasione. Almeno in parte la ha sfruttata e ha raccolto qualche frutto, sul fronte dei rapporti con il resto dell'opposizione, per una volta quasi tutta unita, e su quello dell'immagine di un Pd che da decenni sembrava impermeabile a qualsiasi istanza legata ai diritti sociali.

La leader del Pd dovrebbe però chiedersi perché, nonostante il vasto consenso raccolto dalla proposta, l'esito, sia pure in modo molto più rocambolesco del previsto, resta la sconfitta della sua proposta sul salario. La “mobilitazione estiva” proclamata con gran rullo di tamburi dalla segretaria del Pd è da questo punto di vista indicativa.

Il Pd di Elly Schlein si è sì spostato dall'orizzonte esclusivo dei diritti civili a un indirizzo diverso che include e anzi privilegia quelli sociali. Però lo ha fatto mantenendo i metodi dei decenni precedenti: le raccolte di firme, gli alti lai in televisione, la pur fondamentale battaglia parlamentare. Ma il fronte dei diritti sociali, a differenza di quello dei diritti civili, non permette scontri d'opinione. Richiede una mobilitazione concreta e combattiva dei diretti interessati, dei rappresentati: i rappresentanti da soli non bastano. Ma da quel punto di vista il Pd di Elly è anni luce in ritardo.