Da un lato la doccia gelata - peraltro oramai ampiamente attesa - del Pil che il ministero dell'Economia è costretto a rivedere al ribasso. «Ma il governo - taglia corto Matteo Renzi - non nasconde i fatti. Noi diciamo verità, non barzellette». Dall'altro, l'endorsement: meglio, l'entusiastico appoggio, dell'ambasciatore Usa in Italia, John Philips, alla riforma della Costituzione targata palazzo Chigi: «Se vincesse il No per l'Italia sarebbe un passo indietro». Anche per questo, il capo del governo italiano è stato invitato a Washington domenica prossima per l'ultima cena di Stato dell'amministrazione Obama: «E' un grande onore - assicura Philips - gli Usa apprezzano moltissimo la leadership di Renzi e la considerano molto importante». Dunque l'interrogativo è: ai fini delle prossime sfide che attendono il presidente del Consiglio, quali di questi due fatti è politicamente più importante?Partiamo dal secondo. Non c'è dubbio che è sul fronte estero che Renzi ha costruito i suoi successi più significativi. La Brexit, è vero, ha catapultato l'Italia nel direttorio europeo non per meriti propri, ma sarebbe intellettualmente disonesto non riconoscere l'azione svolta da Renzi per rinforzare l'immagine e il ruolo tutt'altro che trascurabile del nostro Paese nel pencolante edificio Ue. Come pure è palese che la grandissima parte delle cancellerie internazionali faccia il tifo per la vittoria del Sì al referendum. Se ne capisce il motivo. Di tutto l'Europa ha bisogno, infatti, tranne di un nuovo shock dopo l'addio di Londra. Sia perché, come ha messo in guardia anche Pierluigi Bersani, c'è la speculazione in agguato; sia perchè terremotare gli equilibri italiani provocherebbe un effetto a ricasco nel vecchio Continente che rischierebbe di avere riflessi negativi su alcuni delicatissimi fronti: immigrazione, sicurezza, lotta al terrorismo. Significativo il monito dell'agenzia di rating Fitch: «Se vincesse il No, lo vedremmo come uno shock negativo per l'economia e il credito italiano». In una simile cornice, palazzo Chigi può capitalizzare il sostegno dei principali leader mondiali. Non è poco, e non era scontato.Ciò nonostante nei corridoi della presidenza del Consiglio soffiano refoli di inquietudine. Il perché deriva dal primo dei fatti citati: l'andamento non positivo dell'economia. Alla crescita zero si aggiunge - o più precisamente: si accompagna - l'obbligo di rivedere al ribasso il Prodotto interno loro che misura la ricchezza complessiva del Paese. Il fatto che è che al Pil sono legate tutte le previsioni contenute nella legge di bilancio. Se cala, calano anche le stime sulle entrate mentre cresce il peso degli interessi da pagare sul debito. Non a caso Padoan ha reso noto che il taglio dell'Irpef, pozione magica nei riguardi del consenso popolare, è stato rinviato. Nelle intenzioni, al 2018.Che c'entra questo con l'apprezzamento dei governi esteri? C'entra, c'entra. Perché quell'apprezzamento non è gratis. Il prezzo che si deve pagare sta nel risanamento dei conti pubblici. Senza e al di fuori non c'è endorsement che tenga: prima o poi - più prima che poi - i nostri partner ci volteranno le spalle ed il peso specifico dell'Italia sui teatri internazionali subirà un downgrading inesorabile. Il punto dolente è che proprio la mancata (anzi: nulla) crescita economica mette a repentaglio l'intero sforzo di risanamento. Prendiamo la faccenda della flessibilità, cioè dei maggiori margini di spesa (in deficit, naturalmente) che la Ue dovrebbe concedere a Roma. L'atteggiamento di Bruxelles, nonostante i ricorrenti mugugni del ministro dell'Economia tedesco WolfgangShauble, è sostanzialmente positivo. Ma se i conti pubblici ballano, anche la disponibilità europea potrebbe finire in freezer o, peggio, dileguarsi. Resta sempre Obama. Peccato però che suo successore verrà deciso dagli americani il prossimo 4 novembre. Un mese prima che si svolga il referendum costituzionale italiano.