Alla domanda più importante, se cioè è disposto nel suo braccio di ferro con Berlusconi, ad arrivare fino alla rottura alle elezioni politiche, Matteo Salvini continua a buttarla in corner. Ultima occasione, il colloquio di ieri con il Foglio. Cincischia, parla di programmi, si inalbera sull’Europa. Ma al dunque la frasetta: «Sono pronto ad andare da solo, al massimo in coppia con la Meloni» per un asse lepenista (a proposito: l’ultimo sondaggio dà Madame Le Pen in testa per le presidenziali...) alle urne del 2018 (o 2017?) si guarda bene dal pronunciarla.Si capisce. E’ troppo presto, e troppo impegnativo. Eppure più va avanti, più lo scontro nel centrodestra - ossia la partita politica più significativa per il futuro politico italiano visto che lì c’è il serbatoio tendenzialmente maggioritario dei voti - mette a nudo due facce dello stesso teorema che è impossibile eludere e che darà il segno di chi alla fine prevarrà.Il primo lato dell’assioma è noto e abbondantemente reificato dall’avvento della Seconda Repubblica in poi. Postula che chi si mette contro Silvio Berlusconi all’interno del perimetro del centrodestra viene asfaltato senza se e senza ma. Punto. Per maggiori dettagli rivolgersi al Bossi prima maniera, quello di “Berluscaz” per intenderci, che prima strappò e poi fu costretto a tornare a più miti consigli. Oltre che al governo, naturalmente. Per non parlare di Pierferdinando Casini, scaricato con noncuranza e uno sbuffo di sollievo alla vigilia del crollo dell’ultimo governo Prodi; o di Gianfranco Fini, che con quel «Che fai, mi cacci? » sostanzialmente mise fine al suo percorso politico. In mezzo, una pletora di eminenti figure, da Alfano a Tremonti a Scajola per citarne solo alcune, che hanno subito il medesimo trattamento una volta deciso di ribellarsi in qualche modo al dominio del Signore di Arcore. Dunque? Dunque è semplice: se Salvini insiste sulla ricerca di una intesa «su tutto» - che poi è l’esatto contrario del vincolo di coalizione perché se si è d’accordo su tutto si fa il partito unico non l’alleanza elettorale - o vince la partita o finirà anche lui nell’album di coloro che vollero e non poterono.Il secondo lato assiomatico è, se possibile, ancora più da brividi. Si parte «dagli anni che passano per tutti» con recentissimo copyright salviniano per arrivare a capire se la carta anagrafica viene giocata come l’asso o come una scartina. Nel secondo caso, basta un titolo di giornale. Nel primo, comporta che è necessario arrivare fino all’ultima mano e perciò presentarsi da soli alle politiche, di fatto ripetendo lo schema di Roma. Vuol dire che Salvini attenta eccome alla leadership di Berlusconi: intende casomai raderla al suolo. Perché andare divisi con l’Italicum significa condannarsi a sicura sconfitta. A quel punto certamente Berlusconi non reggerebbe altri cinque anni di purgatorio e il sipario sulla sua vicenda politica calerebbe inesorabile. Ma il fallout di una sconfitta avrebbe conseguenze non trascurabili anche sul leader leghista. A partire dalla consegna di palazzo Chigi per altri cinque anni (e con i grandissimi poteri connessi al combinato della riforma costituzionale e del meccanismo elettorale) a Matteo Renzi. Salvo al ballottaggio votare i 5Stelle e consegnare a loro lo scettro del governo. Ma qui bisogna fermarsi perché lo scenario diventa una discussione da bar.Il punto tuttavia non cambia. Ce l’ha il fegato Salvini per una simile operazione: perdere scientemente le politiche pur di sbarazzarsi del Tir Silvio? Chissà. Però la sensazione che lo scontro sia andato un po’ troppo oltre; che ogni giorno che passa fare marcia indietro diventa più difficile; che il balsamo del prossimo No unitario al referendum costituzionale non possieda obbligatoriamente quelle virtù taumaturgiche necessarie a rimettere insieme i cocci di un idillio in realtà mai sbocciato visto che Salvini ha sostituito Bossi proprio con l’idea di ricontrattare l’alleanza con Berlusconi, resta. E getta ombre piuttosto spesse sul centrodestra che fu.