È andata male, anzi malissimo. Chissà se qualcuno nel Pd e nel M5S avrà il coraggio di dirlo apertamente e interrogarsi per tempo sulle ragioni dello smacco. Probabilmente no. Probabilmente prevarranno gli alibi, e il mercato, come sempre ne offre in quantità. Si possono elencare senza sforzo: il test, in una regione così piccola, non è significativo; con un'affluenza al di sotto del 50 per cento l'astensionismo droga il risultato e non si poteva chiedere alla nuova segretaria di incidere sulla disaffezione dell'elettorato in pochi mesi; nelle elezioni amministrative i 5S partono sempre con l'handicap; comunque il Pd ha guadagnato tre punti percentuali rispetto alle ultime Regionali, quelle del 2018; se la sinistra piange FdI e Lega non possono davvero ridere, dal momento che il partito della premier raggranella 19 punti percentuali e passa meno che nei sondaggi settimanali e la Lega è raso terra.

In tutte queste giustificazioni autoassolutorie c'è qualcosa di vero, ma anche sommate non bastano a controbilanciare il dato di una sconfitta secca. Nel Molise l'alleanza Pd- M5S era molto più netta e marcata che nelle poche piazze nelle quali si era realizzata nelle ultime Amministrative. Con il candidato presidente targato 5S, Roberto Gravina, quella del Molise era quanto di più vicino a una prova generale si sia dato sinora. Il Molise è una delle poche regioni nelle quali il discorso sulla mancanza di radicamento dei 5S non ha valore: nel 2018 il candidato del Movimento raccolse da solo il 38 per cento dei consensi, la lista quasi il 32. Nel settembre scorso, alle Politiche, la flessione era ancora contenuta, il partito ormai di Conte arrivò al 24 per cento, ora è andato poco oltre il 7. Gravina, il candidato, è sindaco di Campobasso e nel territorio i 5S sono presenti non solo come “partito d'opinione”. I tre punti conquistati dal Pd rispetto al 2018 hanno un peso ma lo hanno anche i 6 punti tondi persi rispetto alle Politiche dello scorso settembre, nonostante il cambio di segreteria. Infine, se è vero che FdI non arriva al 19 per cento, la Lega sta al 6 e Fi, col 12 rispetto al 9 di cinque anni fa, è il partito che a destra può cantare vittoria più di tutti, è anche vero che cinque anni fa il candidato del centrodestra vinse, col 43 per cento, solo grazie alla divisione tra Pd e M5S oggi Francesco Roberti supera il 62 per cento contro il 36 del candidato di Pd- M5S- Avs e 25 punti di distacco non sono in alcun modo trascurabili.

È del tutto evidente, e lo era già nelle poche esperienze comuni delle ultime Amministrative, che l'asse tra Pd e M5S non è visto dalla stragrande maggioranza degli elettori come un polo credibile, in grado di offrire un'alternativa a una destra che invece, nonostante le differenze al proprio interno e una competitività spesso palese, è capace di imporre l'immagine di un'alleanza coesa sui fondamentali. Le responsabilità vanno equamente divise tra la leadership del Nazareno e quella del Movimento. Elly Schlein, paralizzata dalla paura dello scontro con le correnti del suo partito e non solo con quelle “di minoranza”, si muove con una prudenza e un tatticismo da politicante di lungo corso che risultano in contrasto stridente con l'immagine di piena discontinuità che la sua figura, soprattutto in merito alle modalità dell'elezione a sorpresa, incarna o dovrebbe incarnare. Conte non rinuncia alla sua competitività spietata, presentandosi spesso come l'alternativa a sinistra del Pd più che come l'alleato. Soprattutto quel che non funziona è il tentativo di soprassedere sulle differenze cavandosela con l'esortazione a concentrarsi sui molti punti comuni. Quando le differenze riguardano temi oggi essenziali in ogni agenda politica come la guerra o il rigore europeo, quell'espediente si rivela appunto come tale: un espediente e nulla di più. La decisione di non organizzare un comizio in comune neppure in Molise è indicativa. Sia chiaro, non che la presenza di Conte e Schlein sullo stesso palco avrebbe cambiato niente nel risultato del voto di domenica. Avrebbe però rappresentato una svolta, o almeno un avvio di svolta, nei rispettivi partiti, l'indicazione della disponibilità a sfidare il dissenso interno, non solo al vertice ma anche alla base, pur di dar vita a un soggetto politico plurale ma omogeneo. È usuale dire che Pd e M5S sono condannati ad allearsi se vogliono competere con la destra. Ma chi mai punterebbe su un'alleanza vissuta come una condanna?