Viene ripetuto spesso che il Mes, per le forze politiche che da anni sono alle prese con quel nodo senza riuscire a scioglierlo, è essenzialmente una bandiera identitaria. Le posizioni prescinderebbero da un merito in sé inesistente. Non è precisamente così: il merito c'è, la riforma è discutibile e discussa, l'argomentazione per cui ratificare la riforma non comporterebbe alcun rischio dal momento che ciò non implicherebbe affatto l'accesso al medesimo Mes, è esile.
È ovvio che l'esistenza del Mes in sé non comporta rischi, come ha evidenziato lo stesso ministero dell'Economia nel suo deflagrante “parere”, e che ratificare una riforma già accettata da tutti gli altri Paesi europei non significa dover poi chiedere il sostegno dello stesso Mes. Il problema si creerebbe però ove condizioni future rendessero necessario quel sostegno e a quel punto i pericoli oggi inesistenti si profilerebbero eccome.
Tuttavia è un fatto che il Mes sia anche e soprattutto un vessillo ideologico, però non del tutto svincolato da quel “merito” della riforma che pure esiste. Insomma, ideologia e identità sì ma correlate a qualcosa di più vasto e sostanzioso di una mera questione nominativa. Messe così le cose, lo spartiacque del Mes cessa di apparire come una divisione fondata sul nulla con aspetti fortemente demenziali e rinvia invece a una molto più profonda differenza di culture politiche. E a propria volta la cartina di tornasole del Mes, se adoperata in questo modo, rivela alcune realtà alquanto sconcertanti della politica italiana, del resto confermate da altri dossier di primaria importanza come quello sulla guerra in Ucraina. L'atteggiamento del Pd e di FdI, dietro la facciata opposta, è sostanzialmente simi le. Giorgia Meloni usa la ratifica come strumento di contrattazione per ottenere condizioni più vantaggiose nella riscrittura del patto di stabilità e deve muoversi con circospezione, avendo usato per anni gli attacchi contro il Mes come strumento eminente di propaganda. Ma sa, come sa tutto il suo gruppo dirigente, che la corda della contrattazione va tirata ma non spezzata e che la base elettorale rigida sul Mes, perché realmente sovranista, rappresenta sì e no il 5 per cento di un consenso elettorale lievitato sino al 30. Con le dovute maniere la premier è pronta a sterzare sul Mes come ha già fatto con la guerra, i rapporti con Putin, l'accettazione del rigore europeo: tutti fronti sui quali l'assonanza con il Pd è oggi totale. Del resto nella scorsa legislatura i rapporti tra i due partiti non erano affatto ai ferri corti come si direbbe stando alla comprensibile propaganda attuale e, al contrario, l'armonia tra Letta e Meloni era tale da provocare per mesi una messe di ironici commenti.
Sugli stessi temi e su altri ancora la vicinanza tra Lega e M5S è palese e molto più marcata che non quella delle due formazioni “populiste” con i partiti con i quali sono alleati o in procinto di esserlo. Le due formazioni che diedero vita al governo gialloverde condividono radici antisistema non del tutto disseccate e una vocazione populista, nel senso meno sprezzante del termine, a differenza di quel che si può dire per due partiti d'ordine e “di sistema” quali sono, retorica comiziante a parte, il Pd e FdI.
Messe così le cose, infine, la vicinanza tra Fi e la pulviscolare galassia centrista su questioni come lo stesso Mes, la guerra, l'Europa e la giustizia è evidente. Solo la follia di un sistema politico costruito nella confusione programmatica della Seconda Repubblica impedisce a un centro che avrebbe tutte le possibilità di diventare una forza politica rilevante e probabilmente anche ago della bilancia nella politica italiana.
Nella teoria, ma solo in quella, il disegno potrebbe funzionare: due poli, ciascuno trainato da una forza di sistema con al seguito, imbrigliate, le forze antisistema e le rispettive ali centriste, tra loro contigue. Ma per funzionare una mappa del genere richiederebbe una maturità politica che può essere acquisita solo con anni, anzi decenni, di pratica di governo e di opposizione e che sfugge a ogni tentativo di essere costruita a tavolino. Nella realtà, invece, è inevitabile che una struttura con contraddizioni interne allo stesso tempo clamorose e inconfessabili sia condannata, chiunque governi in una fase o nell'altra, a una instabilità permanente.