Chissà se la data del 18 aprile, quando ci sarà la sentenza di primo grado per la casa di Montecarlo, sarà storica per Gianfranco Fini come lo fu per la Repubblica italiana quella del 1948. Lo sguardo verso il passato non è fuori luogo, perché comunque stiamo parlando di una sentenza di primo grado che arriverà a mettere un primo punto fermo per fatti del 2010, cioè di quattordici anni fa. Vicende che, sul piano politico, sono preistoria. E su quello giudiziario, comunque vada a finire per l’ex presidente di Alleanza nazionale, comunque ingiuste, tardive e fuori contesto.

Il reato di cui deve rispondere Gianfranco Fini, riciclaggio, ha il sapore aspro dei processi di mafia, del denaro sporco da ripulire, del nascondere la provenienza illecita di montagne di soldi. E la richiesta di condanna a otto anni di carcere per Gianfranco Fini che i pubblici ministeri hanno richiesto al processo non è sproporzionata rispetto a quanto previsto dall’articolo 648 bis del codice penale, la cui pena edittale va da 4 a 12 anni. Ma è una richiesta spropositata rispetto alle “colpe” di un ex personaggio politico di primo piano che non è certo un narcotrafficante né un titolare di lavanderie mafiose. Uno che forse ha commesso più peccati che reati. E che, nel mondo della destra italiana, o almeno in una sua parte, è visto più come un traditore che un delinquente. Traditore di quella “buona battaglia” in nome della quale un’anziana nobildonna di destra, la contessa Anna Maria Colleoni, aveva lasciato al suo partito, Alleanza nazionale, e al suo segretario, Gianfranco Fini, un’eredità di beni immobili. Tra questi la famosa casetta di Montecarlo, un piccolo appartamento in zona prestigiosa e appetibile per valore economico.

Gianfranco Fini, fino a quel momento, è considerato un leader di grande levatura morale. Estimatore e amico dei magistrati fino al punto di lasciarsi sorprendere mentre bisbiglia all’orecchio di un procuratore qualche frase di irrisione nei confronti di Silvio Berlusconi, suo alleato. Proprio nei giorni in cui il numero uno di Forza Italia ha ingaggiato un corpo a corpo con la corporazione delle toghe nel nome della difesa dello Stato di diritto, il presidente della Camera Gianfranco Fini, vezzeggiato dalle solite ipocrisie di sinistra, pare sdraiato su quella linea del Piave tanto apprezzata da Saverio Borrelli e il partito dei procuratori.

La vicenda della casa di Montecarlo, scoperta da un giornalista impeccabile e insospettabile come Livio Caputo, ma poi usata dal Giornale in modo piuttosto brutale, nasce casualmente in questo contesto politico. E provoca la caduta rovinosa di Fini dal piedistallo del perbenismo, prima di tutto. Più che vendetta di Berlusconi, ci troviamo di fronte a una sorta di ribellione di popolo. C’è sconcerto moralistico e incapacità di ammettere, da parte della comunità della destra italiana, che anche il leader più ineccepibile può avere debolezze, ingenuità e paure. «Sono stato un coglione», ha detto in qualche circostanza Gianfranco Fini, lasciando intendere di aver tenuto gli occhi chiusi per amore o per una sorta di distacco dalle miserie terrene mentre era impegnato in cose più grandi, come quelle della politica. Ma il “giornalismo investigativo” sa essere più crudele ancora dell’accanimento giudiziario. E mattoncino sopra mattoncino, come la scoperta degli acquisti di mobili di arredo per la casetta, il processo si costruisce.

Non giova la reputazione un po’ così così del cognato, Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, campagna amata di Gianfranco e madre delle sue due figlie. Giancarlo oggi è a Dubai, ma ieri era a Montecarlo, nell’appartamentino di Bulevard Princess Charlotte 14, acquistato sottocosto con denaro non proprio ma riferito a scatole cinesi di società con sedi in paradisi fiscali. E poi rivenduta a un miliardo e trecentomila dollari a una società svizzera di cui, scopriranno poi i magistrati, era titolare lo stesso Tulliani.

Intrighi economico- finanziari cui Gianfranco Fini si è sempre dichiarato estraneo, così come dal reato di riciclaggio. Probabilmente si è solo limitato, nella sua veste di segretario di Alleanza nazionale, a far vendere l’appartamento al cognato con un notevole sconto sul valore di mercato. Forse non immaginava da dove provenivano i soldi serviti per l’acquisto. Forse è stato solo leggero. Ma anche umano come mai era apparso nei suoi brillanti interventi alla Camera, anche quando lanciava strali sui “peccati” degli altri. Ma anche mostrando qualche duttilità, come hanno dimostrato le sue prese di distanza dal fascismo, dalle leggi razziali e da una parte della storia della destra italiana. Gli stessi principi base del piccolo partito da lui fondato dopo la rottura con Silvio Berlusconi, Futuro e Libertà, somigliavano più alla laicità del partito radicale che a certi antichi moralismi del Msi. Ma è stato sulle relazioni personali, sulla vita quotidiana fuori dai palazzi delle istituzioni, che l’uomo Giancarlo ha inciampato. E crediamo non servirà a molto l’intervento generoso e improvviso della sua compagna Elisabetta che ha tentato di scagionarlo all’ultimo minuto utile, appena prima delle richiesta dei pm di otto anni di carcere per lui e nove per lei, dieci per il fratello e cinque per il padre. «Ho nascosto a Gianfranco Fini - ha letto su un foglietto tenuto con mani tremanti- la volontà di comprare la casa e poi la successiva vendita. Lo spregiudicato comportamento di mio fratello è stato doloso».

Non è così semplice, perché, per quanto in modo colpevolmente tardivo, si stanno processando imputati per il reato di riciclaggio, non per questioni politiche o morali. Ma forse il mondo delle istituzioni ha già perdonato, dal momento che l’avvocato generale dello Stato, che si era costituito parte civile, non si è associato alla richiesta di condanna nei confronti di Gianfranco Fini. E lui stesso oggi potrebbe rivedere qualche sua posizione del passato sulla giustizia. Se non altro per fatto personale. Comunque vada il 18 aprile. Sia in caso di assoluzione (che gli auguriamo) che di condanna.