Il termine più corretto con cui può essere definito l’effetto che in Forza Italia hanno suscitato le parole di Gianni Letta sul premierato è probabilmente spaesamento. Perché se diversi dubbi su alcuni parti della riforma da parte di diversi esponenti azzurri, e non solo, sono ormai noti, il discorso cambia se a precisare alcuni aspetti è colui che per decenni è stato braccio destro di Silvio Berlusconi, e punto di raccordo tra questi e il Quirinale.

«Secondo me la figura del presidente della Repubblica così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti nel rispetto della Costituzione, come tutti i costituzionalisti oggi riconoscono, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate…», ha detto Letta mercoledì a Firenze.

Poche ore dopo il segretario Antonio Tajani si è affrettato a puntualizzare che quelle parole non andavano «interpretate in direzione contraria» rispetto al sostegno azzurro alla riforma.

Eppure, l’uscita pubblica dell’eminenza grigia di Fi ha lasciato interdetti molti esponenti del partito, che per tutta la giornata di ieri si sono interrogati in Transatlantico e fuori sul senso di quelle parole. «La mia impressione è che si sia trattato di una presa di posizione forte che nasce altrove, magari per qualche screzio o incrinatura dell’asse tra Tajani e Meloni», dice un deputato di peso che preferisce restare anonimo. Arrivando a ipotizzare la mano della famiglia Berlusconi, «che attraverso Letta ha gettato un sasso nello stagno a Tajani e al governo». Di certo ci sono i dubbi di molti esponenti azzurri sulla riforma in sè, un «tatticismo» che viene talvolta definito «timore» per un progetto complicato che potrebbe non andare a buon fine. «Ne vale davvero la pena?», ci si chiede nella chat del partito.

Le parole di Gianni Letta sul premierato «vanno lette con il rispetto che si deve a una figura con la sua esperienza e il suo vissuto» è la tesi di Giorgio Mulè, secondo il quale Letta «è un uomo delle istituzione, mai di parte» e «ha una sensibilità tale che guai a mettergli delle etichette». Per questo «le sue riflessioni vanno valutate e approfondite come è giusto che sia e come deve fare il Parlamento davanti a una riforma costituzionale per cui non possono esistere delle bandiere da piazzare».

Certo, sussurra un altro esponente azzurro, «quelle parole non coincidono perfettamente con la linea del partito» e insomma segnalano una divisione tra le diverse componenti di Fi che esiste e sulla quale dovrà lavorare. Letta, spiega un senatore vicino al segretario azzurro, «non è mai stato organico, è un civil servant ma non ha mai preso la tessera e non è mai stato candidato» e per questo la sua posizione va rispettata ma quella di Fi è di «pieno sostegno alla riforma».

Che ieri è stata difesa, ovviamente, da chi ci ha messo la faccia, cioè la ministra Maria Elisabetta Alberti Casellati. «Nessuno dei rilevanti poteri del capo dello Stato, previsti in nove articoli della Costituzione, è stato toccato - ha precisato ieri Per questo le parole di Gianni Letta sono state travisate, perché l’ipotesi da lui prospettata riguarda un rapporto generico tra due poteri, ma non quello specifico del “Premierato all’italiana” da noi proposto, che si distingue dagli altri e soprattutto dal Cancellierato alla tedesca, tanto sbandierato dal Pd, che svuota la figura del capo dello Stato relegandola al ruolo di un mero notaio».

La risposta arriva per bocca del dem Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari costituzionali del Senato, il quale «si dispiace» di «vedere la ministra Casellati impegnata a far dire a Gianni Letta quel che egli non ha detto» perché «le sue parole sono state chiarissime: ha bocciato il ddl Meloni- Casellati in quanto lesivo delle prerogative del capo dello Stato, spiegando correttamente che questa lesione avviene perché, mentre oggi le due cariche hanno pari legittimazione, quella del Parlamento, domani, se si passasse all'elezione diretta del premier, punto saliente del progetto governativo, questa parità voluta dai Padri Costituenti salterebbe di netto».

Ma oltre ai poteri del capo dello Stato ci sono altri due aspetti della riforma che proprio non vanno già a buona parte di Fi, cioè la norma antiribaltone e il premio di maggioranza del 55%. «Personalmente sarei stato dell’idea che una volta che il premier si dimette si torna a votare per dare maggiore stabilità», ha puntualizzato il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani, altro fedelissimo dei tempi d’oro del Cavaliere, pur garantendo il sostegno alla riforma.

I prossimi mesi del segretario Tajani saranno molto lunghi, in primis per tenere a bada i suoi.