Almeno un obiettivo l’attacco israeliano contro l’Iran lo ha per il momento centrato in pieno. L’isolamento internazionale di Israele è svanito nel giro di una notte. La condanna quasi unanime nel mondo che aveva portato lo Stato ebraico vicino alla condizione di “Stato canaglia” non è scomparsa ma è stata derubricata a fattore quasi secondario.

Emmanuel Macron, il leader europeo che era stato più di tutti severo nel puntare il dito contro i massacri di Gaza, tanto da venire accusato apertamente di “antisemitismo” dal governo israeliano, è stato tra i primi a supportare l’attacco assicurando a Israele pieno appoggio non nelle azioni di attacco ma, se necessario, nella difesa.

Solo in apparenza paradossalmente proprio l’Italia, il Paese più restio a condannare senza appello Netanyahu, è stata più cauta. In Parlamento Tajani ha cercato di giustificare sì l’azione di Israele ma senza sostenerla esplicitamente. La cosa non dovrebbe stupire. L’Italia è forse il Paese europeo che vanta maggiori relazione con l’Iran e in ogni caso punta a conservare e magari irrobustire il poco che resta della tradizionale politica della Prima Repubblica. Quella che aveva fatto proprio dell’Italia una sorta di ponte tra Europa e Medio Oriente, postazione preziosa e oggi in buona parte ma non del tutto perduta. Ma sul punto chiave il governo italiano, e se è per questo neppure nessuno tra i gruppi d’opposizione che pure hanno condannato apertamente l’attacco, non ha avuto dubbi: l’Iran non deve poter arrivare alla bomba atomica.

Il sortilegio che ha riportato in auge un leader già esecrato e inseguito da un mandato di cattura internazionale come Netanyahu si spiega facilmente. L’Iran degli Ayatollah è una spina nel fianco per tutti: per l’occidente come per i Paese arabi e le stesse Russia e Cina non sembrano scaldarsi davvero per un “protetto” troppo poco controllabile per essere davvero apprezzato. Per i progressisti dei vari Paesi occidentali, quelli che si sono mobilitati contro “il sionismo” nei mesi della mattanza (tutt’altro che conclusa) a Gaza è inevitabile un qualche imbarazzo nel difendere in quanto Paese aggredito una nazione nella quale i diritti civili sono lapidati quotidianamente. Ne consegue che se Israele riuscirà a fermare la corsa iraniana all’atomica il plauso per Netanyahu sarà unanime. Se poi l’attacco dovesse portare, indirettamente, a una caduta del regime lo stesso Bibi diventerebbe una specie di benemerito un po’ ovunque.

Per i partiti d’opposizione italiani, in prospettiva, sarebbe un problema. Oggi il denominatore comune è facilmente trovato nella “violazione del diritto internazionale” ma soprattutto nei rischi per il mondo che l’attacco implica. Senza il secondo elemento e con il primo fortemente depotenziato dalla fine di quella che tutti, nessuno escluso, sostiene di considerare una minaccia esiziale, l’atomica iraniana, e peggio nell’eventualità di una caduta del regime, le differenze che oggi corrono sotto pelle, percebili ma appena appena, emergerebbero.

Conte non ha alcun dubbio: è il leader che più di ogni altro ha cavalcato e cavalca la campagna per Gaza. Mira a imporsi come vero rappresentante di quella parte della sinistra che considera l’odio per Israele un elemento identitario. Terrà la posizione comunque senza scomporsi minimamente per la rotta di collisione con l’Europa: la postazione a cui mira e, con le non determinanti differenze del caso, quella di Mélenchon in Francia e la distanza con l’Europa la considera una medaglia da sfoggiare di fronte al pubblico votante. Avs batterà la stessa strada, certo con un po’ di rozzezza in meno, anche perché considera che la rappresentanza dei palestinesi gli appartenga per diritto e tradizione e non se la può certo fare scippare come se nulla fosse.

Per il Pd le cose sarebbero molto meno semplici. Il partito di Elly già soffre la rottura con l’Europa sul riarmo. Al suo interno conta una componente non secondaria che, pur nella condanna inequivoca della politica israeliana a Gaza, preferirebbe un atteggiamento molto più aperto nei confronti almeno della sinistra di Israele. Non applaudire la caduta del regime o anche solo l’affossamento del programma nucleare di Khamenei potrebbe rivelarsi molto più difficile del previsto.