A Sergio Mattarella non fa difetto la chiarezza. Troppe critiche alla Ue «modello di convivenza e crescita unico al mondo», avverte il capo dello Stato. Il pensiero va ai muri anti-migranti del premier ungherese Orban, o alle battaglie no euro dei partiti anti-europei. Ma, per forza di cose, va soprattutto al braccio di ferro innescato Renzi versus Commissione sul rispetto dei parametri economici di bilancio e alla vera e propria intemerata anti Bruxelles del superministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan secondo il quale «se boccia la manovra italiana, l’Unione rischia la fine». Insomma Quirinale contro palazzo Chigi. Possibile? No, infatti. Una simile lettura del monito del Presidente è allo stesso tempo troppo e troppo poco. Troppo per far sfregare le mani al fronte del No referendario, al cui interno del resto le milizie antieuropee sono parecchie, ben armate e ultra agguerrite. Troppo poco però per consentirne l’archiviazione tra gli ammuffiti faldoni della retorica europeista, tanto dovuta quanto inefficace.Il punto vero, infatti, è l’uso politico della polemica con la Ue. Un uso che, se non ben calibrato, porta acqua al mulino del populismo, della demagogia, delle spinte nazionalistiche a tratti venate di xenofobia. Il vento contro l’edificio europeo gonfia le vele delle forze anti-sistema. Ma che succede quando quel vento soffia e abita nelle stanze delle istituzioni e del potere e da esse prende spinta? Senza farla troppo lunga, l’elemento su cui riflettere è quanto sia legittimo e conveniente usare il grillismo per combattere Grillo o il leghismo per contrapporsi Salvini; e se per contrastare populismo e demagogia si possano usare accenti e argomentazioni dello stesso tenore: vedi appunto gli attacchi renziani alla Ue o la diatriba con Grillo sugli stipendi ai parlamentari da dimezzare secondo l’ex comico e invece da legare alle presenze in aula secondo il presidente del Consiglio.A rigor di logica, la risposta è ultra negativa. Inseguire i populisti sul loro terreno avvelena i pozzi del confronto politico e comunque si rivela un boomerang perché tra l’originale e la fotocopia l’elettore sceglie sempre - e verrebbe da dire giustamente - il primo. Il grillismo targato palazzo Chigi non funziona; il gelo verso l’Europa esibito indossando la cravatta invece della camicia verde, lascia il tempo che trova.Già. Ma se l’umore popolare invece proprio a quel sentimento si aggrappa, e se la posta in palio è il referendum sulla riforma costituzionale che è lo spartiacque non solo della legislatura bensì di un’intera fase politica, qual è l’antitodo da mettere in campo? Anche qui la risposta è semplice: la buona politica, le buone riforme, le misure per mettere in sicurezza i conti pubblici e riavviare la spirale virtuosa più crescita-più lavoro. E anche, ma meglio sarebbe prioritariamente, unire le forze che la cittadella delle istituzioni intendono, ciascuna con la sua specifica visione identitaria, salvaguardare. Tradotto per l’asfittico gioco politico italiano: la collaborazione fino alla vera e propria alleanza tra Pd e FI. E’ il perno su cui ruota l’equilibrio dell’intero sistema: se il panorama è tripolare e se una delle tre forze si rifiuta di entrare nel gioco delle coalizioni possibili, non resta che l’intesa tra le altre due, specialmente se nessuna di ambedue ha la forza per marciare da sola e arrivare al traguardo.Non a caso la legislatura era cominciata così. Con Silvio Berlusconi, precedentemente cacciato con ignominia dal Senato con l’ok di Renzi, che sale le scale del Nazareno per ritrovare l’allure dello statista pronto a scrivere le regole della Terza repubblica.Poi proprio l’elezione di Mattarella ha spezzato quello schema, precipitando per alcuni aspetti il Pd e il premier e per molti più altri FI ed il suo fondatore, nella camicia di forza della rispettiva insufficienza.E adesso? Adesso, appunto, la sindrome di Grillo spinge a usare gli stessi meccanismi comunicativi e ad adottare similari pentastellate parole d’ordine. Ma altrettanto scarso potere di convincimento, visto che l’M5S nonostante la morte di Casaleggio, i frigoriferi romani e le feroci lotte intestine tra capetti, non schioda da 25 per cento: anzi.E poi c’è un’altra considerazione, che al momento nessuno esprime a voce alta ma che è decisiva. La grande intesa Pd-FI si può fare eccome, solo che oguno dei contraentri aspetta il 5 dicembre immaginando di siglarla nel modo per lui più conveniente. Se avranno vinto i Sì, Renzi - sempre se vorrà - si rivolgerà a Berlusconi dall’alto della vittoria nel passaggio più tormentato e forte del ritrovato consenso popolare. Se Silvio accetterà, dovrà farlo da comprimario. Se al contrario prevarranno i No le parti si rovesceranno, ma a quel punto il pericolo è che l’ex premier si trovi di fronte non il Nazareno bensì le sue macerie.Proprio l’assetto del dopo 4 dicembre è il dato che più inquieta il Quirinale e la bussola per orientarsi nelle mosse di Mattarella. Troppe divisioni minacciano di scavare un solco non solo tra Roma e Bruxelles ma all’interno stesso dello già slabbrato tessuto politico italiano. L’opera di ritessitura sarà comunque obbligata, casomai il problema sarà chi dovrà tenere in mano l’ago e il filo per ricucire. Ma se la trama viene strappata in troppi e fondamentali punti, ricucire rischia di diventare impossibile. Sta qui l’inquietudine che cova sul Colle. E che si trasferisce negli ammonimenti pubblici e nelle conversazioni riservate. Non a caso c’è chi giura che Mattarella, nel caso in cui vinca il Sì, chiederà comuqnue a Matteo Renzi di presentarsi in Parlamento per richiedere un nuovo voto di fiducia e soprattutto tentare, a quel punto con maggior forza e legittimazione politica, di riprendere i fili del dialogo.