Il candidato conta, e conta davvero tanto se quello di LiberiEUguali, il presidente del Senato Grasso, può reclamare 10 seggi sui 38 che i sondaggi accreditano al momento a LeU, composta già di per sé da due partiti e mezzo ai quali non resterà molto da spartirsi. Il candidato conta anche se nessuno neppure finge che sia candidato per davvero. Il leader della minoranza del Pd Orlando lo dice chiaramente. Mica è vero che a correre per palazzo Chigi è Renzi: nel partitone di concorrenti ce n’è una pletora. Parole dettare da turpe interesse, potrebbero obiettare i malpensanti: vengono in fondo dal principale esponente del Pd senza la R- come- Renzi in fondo. Mica vero. Andrea Marcucci, che a differenza di Andrea Marcucci è il più renziano del bigoncio a palazzo Madama la pensa allo stesso modo e conferma: di candidati ce ne sono tanti.

Bisognerebbe aggiungere che tra i tanti quelli ufficialmente schierati nell’agone hanno parecchie probabilità in meno degli altri di tagliare il traguardo di palazzo Chigi. Persino chi riesce a costruire una vera coalizione prima e non dopo il voto, in sostanza solo il centrodestra, dovrà infatti trattare in caso di vittoria con i soci, per non parlare delle eventuali coalizioni che si potrebbero formare dopo il voto. In entrambi i casi la candidatura ufficiale sarà un handicap.

Anche se tutti, in un Paese in cui il confine tra politica e psicopatologia viene ormai varcato di frequente, fingono di non notarlo, il quadro è paradossale. I candidati servono, perché in buona misura saranno loro a calamitare il voto. Chi vuole votare Matteo Renzi ci tiene a sapere che non sta sprecando il proprio consenso per un anonimo Pd qualsiasi. Persino per il Movimento di Grillo una faccia nota da accostare alle cinque stelle, che in fondo si somigliano tutte, è fondamentale. Però quei nomi spesi per ramazzare voti pagheranno il prezzo del consenso conquistato vedendosi poi preclusa la porta della presidenza del consiglio.

C’è chi li definisce candidati, chi, un po’ meno ipocritamente, preferisce un meno impegnativo “leader”. Il termine preciso sarebbe “testimonial”, come usa nei messaggi pubblicitari: “consigli per gli acquisti” come amava chiamarli Maurizio Costanzo. Il paradosso di candidati- testimonial tanto importanti per la campagna elettorale quanto difficilmente spendibili per la guida del governo a urne chiuse è la conseguenza diretta di un’ambiguità che il sistema politico italiano ha non solo permesso ma foraggiato e incoraggiato dalle elezioni del 1994 in poi.

In Italia non c’è mai stata elezione diretta del presidente del consiglio. Nessuna riforma costituzionale in questo senso è mai stata approvata. A indicare il premier è il capo dello Stato, a concedergli la fiducia sono i parlamentari. Gli elettori, in questa faccenda, letteralmente non hanno voce in capitolo. La riforma elettorale del 1993, che definiva il il 75% dei parlamentari con il sistema maggioritario uninominale, aveva però determinato una contraddizione palese: gli elettori erano chiamati a scegliere direttamente, e con gran spolvero propagandistico, i loro rappresentanti nei collegi. Però era loro preclusa ogni scelta su chi poi avrebbe effettivamente governato. Il trionfo a sorpresa di Berlusconi nelle prime elezioni con il nuovo sistema, nel 1994, aveva dimostrato quanto invece, per elettori ai quali venivano decantate ogni giorno le meraviglie della scelta diretta, fosse importante poter votare un premier, checché ne dicesse la Costituzione.

In qualche modo la politica italiana, che quanto a fantasia è inesauribile, risolse la contraddizione facendo finta che ci fosse l’elezione diretta. Gli elettori votavano per Berlusconi e Prodi, anche se nulla ostava a che poi quei premier che gli elettori si illudevano di aver eletto fossero sostituiti. Successe allo stesso Berlusconi proprio nel ‘ 94, costretto a passare la mano a favore di Lamberto Dini. Successe a Prodi nel 1998, rimpiazzato da Massimo D’Alema e poi da Giuliano Amato. Capitò di nuovo a Berlusconi nel 2011, sloggiato da palazzo Chigi per fare posto a Mario Monti. In sintesi la spiacevole evenienza si verificò tre volte nell’arco di cinque legislature, una delle quali però limitata a soli venti mesi. Inutile aggiungere che ogni volta gli elettori si sentirono fregati, del tutto a torto a norma di Costituzione ma del tutto ragionevolmente ai sensi della propaganda adoperata da tutte le forze politiche.

Quell’elezione diretta “per finta” aveva però una sua percentuale di verità, dovuta se non a una norma costituzionale almeno a una sorta di “patto tra gentiluomini” tra partiti ed elettori. Almeno in prima battuta il candidato ufficiale entrava davvero a palazzo Chigi, salvo poter poi essere sostituito più o meno a piacimento.

Questo lembo di verità, che era consentito solo da un sistema nella sostanza bipolarista, è stato stracciato nell’ultima legislatura e la nuova legge elettorale lo ha sepolto. Ma cambiare la mentalità degli elettori, abituati da quasi 25 anni a credere di votare per un candidato premier, è persino più difficile del cambiare una legge elettorale, impresa in Italia già proibitiva. Il paradosso dei candidati- testimonial destinati a non governare è il risultato di questa situazione.