Prima di lui ci aveva provato il pittoresco Ross Perot, filantropo e miliardario che corse per la Casa Bianca nel 1992, uno che stava simpatico pure ai suoi nemici e che giustamente venne premiato dagli americani con un bel 18%, miglior terzo candidato di sempre in una presidenziale. Ma era uno scherzo o poco di più. Magari un’avvisaglia.

Passano due anni scarsi ed ecco la discesa in campo di Silvio Berlusconi, un meteorite che si abbatte sulla politica italiana, un alieno, mentre l’onda d’urto riverbera in tutto il mondo occidentale. La presa del potere, folgorante, sulle macerie dei partiti della Prima repubblica fatti a pezzi dalle inchieste giudiziarie e lo smarrimento supremo del Pci-Pds che sperava di raccogliere i frutti (un po’ amari) di Mani Pulite, segnano l’inizio di una nuova era, in Italia e nel mondo: non era mai accaduto in una democrazia moderna che una figura del tutto estranea al mondo della politica piombasse improvvisamente al governo del suo Paese. Conquistando milioni di italiani con la narrazione dei suoi successi, nell’edilizia, nelle tv, nel calcio dove il suo Milan macina trofei e bel gioco.

E anche il paragone con Ronald Reagan non regge: il presidente della rivoluzione conservatrice statunitense ed ex attore di Hollywood si è fatto le ossa nel partito repubblicano ed era stato governatore della California per due mandati. Quando approda alla Casa Bianca è già una vecchia volpe del Gop con una precisa formazione alle spalle.

Con Silvio invece cambia completamente la sostanza della comunicazione politica, magnate del piccolo schermo, tutto deve accadere a favore di macchina, senza tempi morti, i discorsi pronunciati guardando fisso l’occhio della telecamera anche quando riferisce in Parlamento, i canoni dello show business e i metodi del marketing pubblicitario dilagano ovunque, una propaganda che appare rozza forse perché ancora embrionale ma che lascia la sua impronta profonda nella società in parallelo alla rivoluzione digitale. E che rovescia le regole del gioco.

Anche il profilo ideologico indefinito, ex socialista craxiano, leader della destra e sdoganatore dei post fascisti, progressista sui diritti civili, indubbiamente populista ma anche sincero liberale, è la cartina di tornasole di una politica che entra nella post-modernità che perde i suoi rifermenti antichi, che mette in archivio gli album di famiglia.

Le gaffe proverbiali nei vertici internazionali, le involate da avanspettacolo, le barzellette le canzoni con Apicella, lo hanno reso celebre in tutto il pianeta, un logo vivente dell’Italia al pari della pizza, degli spaghetti e del Colosseo.

Nel frattempo a sinistra arricciano il naso, sdottoreggiano sul degrado della politica ridotta a “merce da vendere”, si indignano per le tette in tv, e in pochi capiscono che Silvio Berlusconi incarna lo spirito del mondo in evoluzione ben al di là dei suoi demeriti e della sua persona, piena di qualità e zeppa di difetti, che la sua ascesa è lo specchio della crisi, se non del tramonto definitivo dei partiti di massa e delle loro organizzazioni, della politica animata dal basso nelle sezioni, dei volantini, dei manifesti, dei comizi oceanici. Tutto si può riassumere in uno spot, in un claim,

Senza la sua rivoluzione un umorista brillante e incattivito come Beppe Grillo non avrebbe mai vinto le elezioni e portato il suo movimento fino a Palazzo Chigi. Oppure pensiamo all’ucraino Volodymyr Zelensky, attore comico di media levatura che diventa famosissimo grazie una serie tv qualunquista contro i politici corrotti e poi, in pochi mesi, viene eletto davvero alla guida della sua nazione avverando il destino del suo personaggio. E naturalmente non si può dimenticare Donald Trump, il tycoon d’oltreoceano, una versione pachidermica, ossigenata e brutale del Cavaliere.

Costoro sono tutti i figliocci politici di Silvio Berlusconi. E in fondo lo siamo un po’ anche noi.