Il governatore campano Vincenzo De Luca deve onestamente riconoscere di essere scivolato sul suo carattere auspicando o immaginando "uccisa" la povera Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Vi è rovinosamente scivolato per quante attenuanti reclami: dal trattamento ricevuto dalla Bindi l'anno scorso, rischiando di non essere eletto al vertice della Regione, ai pasticci che temo compiuti dagli operatori televisivi. Ai quali De Luca riteneva di parlare a microfoni staccati, commentando dichiarazioni contro la Bindi rilasciate da Vittorio Sgarbi.L'indimenticato e indimenticabile Sandro Pertini, pure lui provvisto di un carattere irruente, che ne moltiplicava la simpatia, tanto da essere stato il più imprevedibile e popolare dei presidenti della Repubblica succedutisi al Quirinale, consigliava sempre agli amici e compagni politici a colloquio con i giornalisti di non dimenticarne mai la professione. Il monito valeva doppio essendo Pertini anche lui giornalista. E che giornalista, vorrei aggiungere, ricordandone la scrittura schietta ed efficace.Pure a Pertini, peraltro, accadde di scivolare qualche volta sul suo carattere: per esempio, durante una visita ufficiale a Madrid da capo dello Stato, quando liquidò bruscamente il suo portavoce Antonio Ghirelli. E oppose per strada il pollice verso agli inviati che gli chiedevano clemenza per il collega.Una volta che me ne lamentai con lui sapete che cosa mi rispose, con l'aria più naturale di questo mondo? Che per riparare a quello che ammise come torto non aveva mosso alcuna obiezione quando il compagno di partito Bettino Craxi, da lui nominato presidente del Consiglio nel 1983, decise di chiamare come portavoce a Palazzo Chigi proprio Antonio Ghirelli.***D'altronde, l'elenco dei politici vittime del loro carattere, cattivo ma anche buono che fosse, è lunghissimo, per cui risulterà inevitabilmente incompleto quello che sto tentando di stendere.Aveva un carattere a dir poco difficile anche il capo provvisorio dello Stato e per un pò anche primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola. Che annunciava o minacciava così frequentemente le dimissioni da indurre quel sornione di Giulio Andreotti, addetto come sottosegretario a curare anche i rapporti fra lo stesso De Nicola e il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, a sfotterlo chiedendogli una volta, all'inizio di un'udienza: "Ci sono dimissioni in vista?". De Nicola rise e, capìta l'antifona, secondo un racconto fattomi dallo stesso Andreotti, smise da allora di "arrabbiarsi". Mancavano d'altronde ancora poche settimane alla scadenza del suo mandato transitorio e all'elezione del successore: Luigi Einaudi. Che non fu un presidente più facile.Dal Quirinale, pur non esternando pubblicamente, come sarebbe poi accaduto con gli altri presidenti, Einaudi sommergeva di appunti e altri rilievi i ministri che gli mandavano da firmare documenti non predisposti con la necessaria diligenza. E in una crisi di governo si spazientì tanto delle indecisioni e delle manovre opache dei dirigenti democristiani, divisi sulla difficile successione a De Gasperi, da nominare di sua completa iniziativa presidente del Consiglio il ministro dc uscente del Bilancio Giuseppe Pella. Il cui governo, per reazione, fu definito semplicemente "amico" dall'allora segretario dello scudo crociato Amintore Fanfani.Non parliamo poi del carattere di Fanfani, che arrivava nei suoi uffici, di partito e di governo, sempre all'improvviso, quasi per togliersi il gusto di scoprire qualcuno o qualcosa fuori posto. Riuscì una volta a spazientire persino il tollerantissimo Mariano Rumor, che da vice segretario del partito si sentiva continuamente chiamare da lui, segretario, col cicaleggio di un campanello.Sembra che neppure Palmiro Togliatti arrivasse a tanto con i suoi collaboratori alle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del pur disciplinatissimo Partito Comunista.*** Per tornare al Quirinale, Giovanni Gronchi, succeduto a Einaudi, fece sentire subito il suo polso avvisando il governo, allora presieduto dal non duttile Mario Scelba, di togliersi dalla testa l'idea ch'egli firmasse i decreti di nomina dei prefetti e degli ambasciatori senza averne prima visto e approvato le liste predisposte per il Consiglio dei ministri dai titolari dei dicasteri interessati: quelli dell'Interno e degli Esteri.Proprio su una di queste liste Antonio Segni, succeduto a Gronchi, entrambi democristiani, ebbe qualcosa da ridire nell'estate politicamente torrida del 1964, quando il vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni annotò sui suoi diari, durante la crisi del primo governo di Aldo Moro, "rumori di sciabole" per imporre una versione più moderata del centro-sinistra, con tanto di trattino.Al rifiuto del ministro degli Esteri Giuseppe Saragat di modificare l'elenco dei nuovi ambasciatori per inserirne uno cui egli teneva particolarmente, il presidente Segni reagì con un certo risentimento. Che provocò a sua volta una sfuriata di Saragat contro il modo col quale il presidente aveva gestito la crisi appena chiusa. Segni, che non si aspettava evidentemente un carattere ancora più ruvido del suo, impallidì e stramazzò al suolo, colto da un ictus dal quale non si sarebbe più ripreso del tutto. Moro, presente allo scontro ed esterrefatto, corse a chiedere aiuto ai corazzieri schierati oltre l'uscio.A fine anno fu proprio Saragat, con un'operazione politica condotta personalmente da Moro fra i mugugni dei colleghi di partito che non gliela perdonarono mai, a succedere a Segni con una Presidenza che si sarebbe riservata non meno risoluta. Ad ogni crisi il leader socialdemocratico reagiva conferendo incarichi molto vincolanti, nei quali generalmente venivano indicati i partiti che dovevano comporre il nuovo governo. E, casualmente o no, il suo Psdi vi si trovava sempre.Giovanni Leone, succeduto a Saragat, godeva di un carattere generalmente considerato buonissimo, conciliante con le maggioranze di turno ch'egli certificava con spirito notarile: di centro, di centro-sinistra o di "solidarietà nazionale", estesa al Pci. Eppure ad un certo punto s'impunto' pure lui contestando coraggiosamente la linea cosiddetta della fermezza opposta dalla Dc e dal Pci al tragico sequestro di Aldo Moro, sino a predisporre la grazia ad una detenuta terrorista. Egli fu però preceduto dai brigatisti rossi, che uccisero l'ostaggio per chiudere la partita al modo loro. Sarebbero seguite, sia pure con altre motivazioni, le dimissioni di Leone sei mesi prima della scadenza del mandato.***Arrivò quindi il turno quirinalizio di Sandro Pertini, del cui carattere ho già scritto con la simpatia che meritava, a dispetto delle sue oggettive asperità: quasi niente però rispetto a quelle del successore Francesco Cossiga, che si compiacque pubblicamente della qualifica di "picconatore" assegnatagli dagli avversari. E arrivò a minacciare con il ricorso ai Carabinieri il Consiglio Superiore della Magistratura che intendeva formulare critiche all'allora capo del governo Bettino Craxi.Neppure Craxi scherzava quanto a carattere, anche se il portavoce Ghirelli vi trovava le tracce di una "timidezza" repressa. E forse non sbagliava, come qualche volta ebbi modo di sperimentare personalmente. Una timidezza palese invece era quella del mio amico Walter Veltroni, che la leggenda politica vuole, a torto o ragione, danneggiato più volte dal carattere fortissimo del compagno e concorrente Massimo D'Alema. Del quale, francamente, non so se sia più urticante quel "diciamo" con cui conclude ogni frase polemica o il ghigno compiaciuto che l'accompagna.Fra i caratteri difficili meritano di essere citati anche quelli di Ciriaco De Mita, di Ugo La Malfa e persino di quel finto pacioso che era Giovanni Spadolini, da me sorpreso una volta in un ascensore del Senato a fare una umiliante scenata all'autista che gli aveva perduto non so quale documento.Silvio Berlusconi si vanta notoriamente di avere un carattere eccellente, sapendo farsi "convesso o concavo" secondo le circostanze. E rammaricandosi di non avere "la cattiveria" di Matteo Renzi, che in politica è spesso più utile della bonomia. Renzi, dal canto suo, ha recentemente ammesso di essere "cattivo", se non addirittura "antipatico", come gli ha amichevolmente rimproverato Oscar Farinetti invitandolo a porvi rimedio prima del voto referendario del 4 dicembre.Così Farinetti ha spiazzato persino Pier Luigi Bersani, già sorpreso dall'indifferenza con la quale Renzi e amici non si sarebbero accorti della "mucca" nera, nel senso di destra, che girerebbe da tempo tra i corridoi e gli uffici del Pd, al Nazareno, con quali effetti olfattivi vi lascio immaginare.Ma tutto mi sarei francamente aspettato fuorché l'improvvisa e un po' troppo immotivata attribuzione di un brutto carattere a Stefano Parisi da parte di Fedele Confalonieri. Che ha perciò condiviso, in un incontro a Genova di cui ha riferito senza smentite La Stampa, il brusco sgambetto fattogli a sorpresa da Berlusconi, fra la gioia non certo trattenuta di Renato Brunetta e altri forzisti dal carattere non certo tenero, o meno brusco di Matteo Salvini o di Beppe Grillo. Che adesso hanno messo nel loro temperamento il propellente addirittura di Donald Trump.