Ventiquattr'ore per chiudere i giochi o almeno per andarci vicino. Domani debuttano le nuove Camere. Nulla obbliga a eleggere già domani alla prima votazione il presidente del Senato e poi venerdì mattina alla quarta, senza obbligo di maggioranza qualificata, il presidente della Camera. Però non farcela sarebbe un segnale di debolezza e divisione grave e che verrebbe pagato a caro prezzo.

Non è un mistero che il probabile nuovo governo italiano non sia molto amato all'estero: per le posizioni che Giorgia Meloni ha assunto sino a pochi mesi fa ma anche, nel caso di Paesi tento importanti come la Francia e la Germania, perché anche quei governi devono vedersela con un'ondata di destra e temono il contagio italiano. La tentazione di intervenire destabilizzando è forte e trova in Italia tutte le sponde del caso. Il solo modo per disincentivare chi può mirare a togliersi dai piedi quanto prima il governo della destra è dare prova di una solidità che la coalizione di centrodestra non può vantare e deve dunque provare a costruire ora.

Perdere tempo nella palude delle trattative sarebbe un segnale preciso in senso opposto. Indicherebbe una fragilità della maggioranza sulla quale sarebbe quasi inevitabile provare a fare leva, tanto più trattandosi di un governo che dovrà comunque affrontare la situazione forse più difficile nella storia della Repubblica. Giorgia Meloni lo sa perfettamente. Per questo, dal vertice lampo di sabato scorso ad Arcore in poi, moltiplica gli appelli alla celerità.

Solo che per nominare i presidenti delle camere senza lungaggini, tensioni e trattative bisogna aver già chiaro in mente, almeno a grandi linee, il prospetto del nuovo esecutivo. «Un presidente delle Camere vale due ministri», commentava qualche giorno fa un esponente di spicco di Fratelli d'Italia aggiornando il Cencelli. Del resto, la necessità di chiudere subito la mano delle presidenze è anche propedeutica alla corsa per sciogliere la riserva in tempi fulminei dopo il conferimento dell'incarico. La futura Incaricata sogna di farcela in 48 ore, in modo da chiudere l'intero pacchetto per metà della settimana prossima. Nelle settimane scorse ha provato in ogni modo a stemperare gli irrigidimenti e trovare un punto di mediazione tra gli appetiti dei partiti alleati e il suo disegno, quello di un governo politico nell'impostazione di fondo ma “draghiano”, cioè pragmatico e composto da elementi competenti ed efficienti, nelle urgenze immediate.

Qualcosa la leader tricolore è riuscita a quadrare, qualche ostacolo è stato rimosso. Ma restano alcuni macigni che, se non aggirati e eliminati nelle prossime ore rischiano di far partire l'avventura di Giorgia nel modo peggiore. Uno è proprio il primissimo passo, l'elezione del presidente del Senato. Nell'organigramma di Meloni in quel posto figura Ignazio La Russa, con il leghista Molinari alla Camera. La Lega insiste per invertire la ripartizione e assegnare a Calderoli palazzo Madama. Si tratta in realtà di un'operazione di disturbo per forzare la mano alla regista sulla composizione del governo e sui posti assegnati al Carroccio. Il Viminale sembra essere uno di quei problemi che la leader di FdI è riuscita a risolvere, anche se non si potrà dire sino all'ultimo, essendo Salvini pronto a rinunciare per far spazio al suo ex capo di gabinetto Piantedosi. In cambio però vuole molti ministeri e la partita si intreccia qui con quella più decisiva di tutte: il ministero dell'Economia.

Si sa che Sorella Giorgia puntava su un tecnico con nome pesante e affidabilità piena in Europa. Non lo ha trovato e piuttosto che accontentarsi di un ripiego considera davvero la possibilità di chiamare in causa il solo ministro politico di caratura adeguata a quella postazione, Giancarlo Giorgetti. Non è un economista ma sa il fatto suo, blinderebbe il governo, è stimato a Bruxelles e da Draghi. Ma per Salvini vedere il numero due della Lega, con cui spesso si è trovato in disaccordo, in via XX settembre non è una pillola dolce e comunque andrebbe rimessa in discussione l'intera delegazione leghista, ove un ministero così centrale finisse nelle mani della Lega, sia pure quella di governo e non di lotta.

Infine il caso Ronzulli che è un ostacolo serio soprattutto perché per Berlusconi è questione sia di lealtà con la sua collaboratrice oggi più fidata sia di principio. Il Cavaliere deve dimostrare subito che ci sono limiti alle possibilità decisionali dell'alleata: non a caso la accusa di essere «arrogante». Giorgia deve chiarire subito agli alleati ma anche ai rivali e agli altri Paesi che l'ultima parola è la sua. Alla vigilia nessuno di queste trappole è stata superata e ormai il tempo stringe.