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Matteo Salvini e Giuseppe Conte, se arcinemici o ex arcinemici non è chiaro, hanno fatto entrambi nelle ultime settimane la stessa sconcertante scoperta: a spingere per uscire dal governo anche a rischio di sfidare una campagna politico-mediatica che sarebbe ad alzo zero e lo sanno tutti, è la truppa. Sono i parlamentari. Nel caso dei 5S è lo stesso capodelegazione al governo Stefano Patuanelli. Di solito le cose procedono in direzione opposta. I leader, sulla base dei loro più o meno azzeccati calcoli, indicano lo strappo. I parlamentari resistono, soprattutto se c'è il rischio di scioglimento della legislatura di mezzo. S'inventano pattuglioni di “responsabili” (sempre e solo verso se stessi). Se necessario scindono. Stavolta è l'opposto. Salvini e gli ufficiali, per non parlare dei governisti alla Giorgetti, opterebbero per il ruolo aduso del cane che abbaia ma non morde. I parlamentari esasperati dal modus operandi di un governo che li considera solo carne da votazione e stressati dalla competizione massacrante di una FdI che fa fruttare al massimo il ruolo comodissimo della sola forza di opposizione vivono questa maggioranza ogni giorno di più come una condanna. L'affondo elettorale del Pd, che alla ricerca comprensibile del proprio spazio propagandistico ha rispolverato ius scholae e liberalizzazione della cannabis sono in questa situazione pioggia sul bagnato. Certo, che quelle leggi arrivino in porto è una chimera ma per la Lega è già una via crucis restare nella stessa maggioranza con chi sventola quei vessilli aborriti dal proprio elettorato. Il governo può dire a ragion veduta che la faccenda non è di sua competenza, come Draghi aveva chiarito al di la di ogni possibile equivoco sin dal battesimo del suo governo. Il rapporto annuale sulla tossicodipendenza compilato da palazzo Chigi però si schiera senza perifrasi a favore della liberalizzazione e ciò rischia di complicare ulteriormente le cose. I 5S sono in posizione anche più difficile. Per loro il problema non è tanto il resto della maggioranza, che pure li ha sgambettati di brutto con l'emendamento che limita il reddito di cittadinanza, ma proprio il governo e anzi il presidente del Consiglio. È probabile che sul rdc Draghi accetti almeno in larga parte la richiesta di Conte, cioè quella di toccarlo il meno possibile. Ma sugli altri capitoli del listone che l'ex premier presenterà domani al successore la porta è strettissima quando non addirittura sprangata. Nessuno spiraglio sulle armi: il prossimo invio dovrebbe essere varato, senza passare per l'Aula, in settimana. Aperture puramente formali sul termovalorizzatore a Roma: l'ultima versione del testo ammette la possibilità che si ricorra anche ad altri ed equipollenti strumenti. Deciderà il sindaco che ha già deciso per il termovalorizzatore. Sul Superbonus il Mef sta cercando una via per la cessione del credito e non potrebbe fare altro dal momento che sono in ballo migliaia di chiusure di piccole imprese. Ma sulla proroga la decisione è irrevocabile. Conte, fosse per lui, avrebbe già ceduto al pressing del Colle, del Pd e dello stesso Draghi. I suoi parlamentari invece affilano le asce, chiedono che in cambio dei loro voti arrivi qualcosa di concreto. Starà a Conte decidere se fingere di averlo ottenuto o riconoscere la realtà e levare le tende. Il governo insomma ballerà anche se alla fine la molteplice costrizione esterna (guerra, inflazione, crisi energetica, completamento del Pnrr, siccità, pandemia e scusate se è poco) lo terrà comunque in piedi. Però anche le residue parvenze di governo sostenuto da una maggioranza parlamentare sono destinate a svanire presto. Nell'ultimo scorcio di legislatura il governo Draghi si avvia a portare a pieno compimento la sua vocazione da sempre: quella di un governo commissariale il cui rapporto con i partiti che lo supportano si limita al dovere, da parte di questi ultimi, di garantire il sostegno parlamentare alle decisioni del commissario. È una situazione al limite del funerale della Repubblica per come la abbiamo consciuta sinora. Quel limite verrebbe varcato se, come alcuni tra i più stretti collaboratori del premier profetizzano in privato, la situazione dovesse permanere identica anche dopo le prossime elezioni.