È da oltre trent’anni che il romanzo della politica si intreccia senza soluzione di continuità con quello della giustizia, un conflitto quasi “ontologico” che ha visto decine di leader, capi di Stato e di governo finire alla sbarra a ogni latitudine. L’azione dei giudici non sempre si è rivelata immune da faziosità e pregiudizio, a volte ha ribaltato gli esiti elettorali e favorito improvvisi cambi di regime, in altri casi è stata chiaramente persecutoria guidata dall’idea che la magistratura possa in qualche modo sostituirsi alla stessa politica, sospinta dal giustizialismo dell’opinione pubblica e dalla grancassa dei processi mediatici.

L’ultimo a finire nel mirino è stato l’ex presidente Usa Donald Trump, incriminato nei giorni scorsi dalla procura di Miami con l’accusa di aver trafugato documenti top secret dagli uffici della Casa Bianca, messo in stato di arresto per diverse ore dal procuratore Jack Smith che pare seriamente intenzionato a sbatterlo in prigione. «È un sicario mandato da Joe Biden, è un complotto», ha tuonato il tycoon come al solito esagerando e passando la misura. Ma che il suo accusatore sia un simpatizzante dem (la moglie regista è un’amica di Michelle Obama e donatrice del partito) è un fatto accertato e a suo modo destabilizzante visto che Trump è anche il capo dell’opposizione repubblicana e rischia di non poter partecipare alle presidenziali del prossimo anno.

Ma al di là delle storie personali, degli accanimenti o degli interessi di parte, la rotta di collisione continua tra toghe ed eletti sembra di natura sistemica, il frutto di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi decenni che ha allargato in modo significativo il perimetro di azione della magistratura.

Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro Speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Va da sé che l’inchiesta è stata archiviata ma il solo fatto di pensare a un’incriminazione del genere mostra l’idea estensiva che le procure hanno oggi del proprio potere.

Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro di quel terremoto e cambio di paradigma fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via la prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica, sepolta sotto le macerie dei partiti. L’onda d’urto di quella stagione ha dato luogo a una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm, una guerra che si è disputata lungo 36 processi penali, con una sola condanna ai danni Cavaliere, recentemente scomparso.

Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio.

Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta.

Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean-Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese a subire un verdetto di condanna.

Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi «da spioni» per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi.

Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo.

Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico- giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false?

Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo.

Prima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Avanti il prossimo