«Non ci dicono niente. Decidono, poi ci convocano e ci comunicano le loro decisioni», schiumava bile un dirigente di Fi dopo il blitz di palazzo Chigi sulle nomine. I leghisti tengono la bocca chiusa, masticano amaro, puntano a prendersi la rivincita sulle Ferrovie, bottino cospicuo con 24 miliardi stanziati dal Pnrr. È lo stile della premier e del suo uomo forte, il sottosegretario Alfredo Mantovano che ha vinto con le cattive una partita in cui proprio il suo crescente potere era parte della posta in gioco.

Però chiunque abbia frequentato il Parlamento negli ultimi anni non è affatto nuovo a mugugni e lamentele del genere. Lussureggiavano ai tempi del governo Conte 2 che, complice il Covid, aveva ristretto la tolda di comando a 3 o 4 ministri e l'intendenza seguirà. Abbondavano anche col governo Draghi, che decideva in dorata solitudine, però a mezza bocca perché i santi è sempre meglio non stuzzicarli e più santo di Draghi nemmeno Pietro e Paolo. È l'eterna via italiana alle riforme istituzionali, quella che passa per praticare l'obiettivo.

Il rafforzamento dell'esecutivo è oggetto da tempo immemorabile di disquisizioni e dibattiti in punta di Costituzione. Con la tenaglia decretazione d'urgenza- voto di fiducia si fa prima. La riforma monocameralista di Renzi è stata affossata, più per abbattere il suo sponsor che per la riforma in sé. Poi si è provveduto senza bisogno di metter mano alla carta, silenziosamente: una camera dibatte e vota, l'altra ratifica. A turno e cosafatta capo a. Ora è il turno del premierato. La presidente del consiglio è intenzionata a codificarlo e rafforzarlo ulteriormente, renderlo elettivo e si tratterebbe di passaggi importanti. Ma la pietra angolare, il passaggio del presidente del Consiglio da primus inter pares a capo del governo è già stata posta da un pezzo.

La premier tuttavia farebbe bene a stare attenta. Sotto la minaccia dello scioglimento delle Camere i parlamentari, soprattutto ma non solo dei partiti che più soffrivano il decisionismo di Conte e poi di Draghi, hanno tenuto la testa china ma si sono vendicati appena ne hanno avuto l'occasione. Conte è stato costretto alle dimissioni dalla minaccia del voto di sfiducia contro il suo ministro della Giustizia e dall'ordine del M5S di non permetterlo dimettendosi. Draghi è stato impallinato a un passo dal Quirinale e poi disarcionato da ben tre partiti della sua maggioranza.

La situazione di Giorgia Meloni è diversa. A differenza dei due predecessori può contare sul sostegno e sull'obbedienza del suo partito, che ha trasformato da forza periferica a primo partito italiano. La sua coalizione, per quanto forte possa diventare il disagio, non ha al momento alternative e non può neppure vagheggiare colpi di testa. Lo stesso rapporto della leader tricolore con la Lega è più sfumato di quanto non appaia da un atto di forza come quello, effettivamente clamoroso, sulla nomina del comandante della Guardia di Finanza e dell'ad Rai. Non solo Meloni e Mantovano hanno imposto la loro decisione ignorando il dissenso di Giorgetti ma anche del ministro della Difesa Crosetto, tra i principali dirigenti di FdI. Lo hanno anche fatto in modo volutamente sprezzante, quasi oltre i limiti del galateo istituzionale, senza aspettare il ritorno del ministro dell'Economia a cui spettava il compito di indicare entrambi i nomi. Ma con Salvini la pragmatica premier ha trattato sull'Enel, sull'autonomia differenziata, sulle nomine Rai, probabilmente lo farà su Ferrovie. In fondo senza il sì del leader leghista la trappola in cui è caduto Giorgetti non sarebbe scattata.

Per il momento dunque l'inquilina di palazzo Chigi non ha nulla da temere ma la legislatura sarà lunga e proprio le riforme istituzionali rappresentano un terreno infido. I costituzionalisti del Pd suggeriscono alla segretaria di accettare il dialogo, convinti che alla fine la premier, pur di evitare il referendum, accetterà di sacrificare l'elezione diretta accettando l'accordo sul cancellierato. Per la Lega sgambettare l'alleata, una volta incassata l'autonomia differenziata, sarebbe un piacere. Se mai la discussione sulle riforme si aprirà davvero in qualche sede, commissioni Affari costituzionali congiunte o bicamerale ad hoc, i “partiti alleati” faranno il possibile per cogliere l'occasione e presentare a Giorgia Meloni il conto.