Quando alle 2 di notte Giorgia Meloni si è presentata sul palco dell'Hotel Parco dei Principi a Roma sprizzava giustificata soddisfazione. Lei stessa ne ha spiegato i motivi, quasi tutti ovvi tranne uno, meno consueto. La premier gioisce per la percentuale in crescita del suo partito, per l'aumento dei voti ottenuti anche dagli alleati, elemento fondamentale per la stabilità della maggioranza, per guidare l'unico governo del G7 che non esce con le ossa rotte dalle urne.

Ma Meloni è anche soddisfatta per il risultato ottenuto dalla principale rivale, Elly Schlein. Non lo dice esplicitamente, si felicita perché il sistema marcia verso il ritorno al bipolarismo. Però il senso dell'affermazione è indiscutibilmente identico. Ci si può stupire per l'ammissione esplicita non per la cosa in sé. La leader della destra ha fatto il possibile per tirare la volata a quella del Pd. La ha sfidata direttamente. La ha citata più volte, persino nella notte delle elezioni richiamando per la seconda volta il celebre «non ci hanno viste arrivare». Ha impostato la campagna elettorale come un confronto diretto tra lei ed Elly, e avrebbe preferito che si arrivasse anche a quello diretto, proibito invece dalla par condicio.

Non è questione di simpatia personale e nemmeno di solidarietà tra donne, elementi che non si possono escludere ma sarebbero nel caso molto secondari. L'insistenza con la quale la premier ha portato avanti la sua manovra e l'enfasi con cui la ha rivendicata subito dopo il voto rivelano che questo obiettivo non è affatto secondario. Il traguardo di Giorgia è davvero tornare al bipolarismo e probabilmente la sua palese antipatia e ostilità nei confronti di Giuseppe Conte non deriva solo dal considerarlo contendente più temibile di Schlein sul piano mediatico ma anche e soprattutto dal fatto che i 5S rappresentano da 10 anni e passa l'elemento che ha prima distrutto il bipolarismo e poi impedito di ricostituirlo.

Meloni persegue una ristrutturazione bipolarista dell'intero sistema per diversi motivi. Perché questa è la sua visione della democrazia, prima di tutto, ma anche, e forse in misura anche maggiore, perché in un Paese diviso in due come è da sempre, sin dagli albori della prima Repubblica, l'Italia il bipolarismo avvantaggia la destra. Messi di fronte al bivio fa di solito premio sugli elettori indecisi e astensionisti la diffidenza nei confronti della sinistra: una delle principali leve sulle quali fondava le sue vittorie Berlusconi.

Ma il bipolarismo a cui mira la nuova leader della destra è diverso da quello su cui si appoggiava Berlusconi. È personalizzato. Non prende di mira l'intera compagine avversaria indicandola come "la sinistra" o addirittura "i comunisti". Giorgia vuole che il rivale sia ben identificato, con nome e cognome, specifico e unico: l'antagonista. Deve essere così perché quello è il materiale con cui va costruito il suo modello di democrazia, inesistente per ora nel mondo, il "premierato". Gli elettori vanno abituati a considerare da subito le elezioni come una sfida non solo tra due poli ma tra due leader, tra due candidati al comando del Paese.

Sino a un certo punto gli interessi delle due leader che, dopo queste elezioni, sono di fatto protagoniste assolute della politica italiana convergono. Elly Schlein deve il successo netto che ha ottenuto in queste elezioni a una strategia molto diversa, forse opposta, rispetto a quella che aveva in mente al momento dell'inattesa elezione a segretaria. La carta vincente che ha giocato è stata quella di un'offerta molto diversificata: nelle liste del Pd gli elettori, come acquirenti in un grande centro commerciale, hanno trovato di tutto e tutti hanno potuto rintracciare candidati di proprio gusto. Subito dopo l'ascesa, probabilmente, Schlein aveva in mente un disegno di tutt'altro tipo. Mirava a dotare il Pd di una identità precisa e modellata sulla sua visione della sinistra.

In quasi un anno e mezzo di segreteria ha avuto modo di scoprire che quella strada è un vicolo cieco. La natura stessa del Pd lo impedisce: nato come partito a vocazione maggioritaria, cioè come partito-contenitore, poi segnato da oscillazioni tra segreterie molto diverse tra loro, ciascuna delle quali ha lasciato in eredità una delle tante anime che convivono nel partito. Il Pd non può che essere un partito dall'identità molteplice. Ha tutto l'interesse a convergere verso il bipolarismo ma non può identificarsi con un singolo leader neppure al proprio interno, figurarsi come capo e rappresentante di un'intera coalizione.

Da questo punto di vista è eloquente il fatto che se il Pd di Elly ha ottenuto un risultato al di là delle aspettative, tanto da far cantare ieri vittoria alla segretaria a gola spiegata, «Siamo passati da un distacco di 2 milioni di voti a un solo milione: stiamo arrivando», nel conto delle preferenze l'affermazione di Elly Schlein è stata invece modesta. Fino a un certo punto i due principali partiti italiani si daranno dunque reciprocamente man forte, cercando di farlo vedere il meno possibile. Poi però sarà necessaria la scelta tra due modelli di bipolarismo e a decidere saranno gli elettori nel referendum sul premierato.