“No, al Colle per dimettermi nel caso in cui il Parlamento non riuscisse a fare la riforma elettorale non ci salgo. Non funziona così: casomai dev’essere Mattarella a chiamarmi”. L’ha detto Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno alla Camera. Non l’ha detto proprio così usando quelle espressioni un po’ brutali, perché il garbo e la felpatezza sono tratti distintivi dell’uomo. Però - se non abbiamo capito male - il senso era quello. Ed è un senso che politicamente risulta tutt’altro che trascurabile. Vediamo di inquadrare la situazione. Mettendo da parte infingimenti o ipocrisie, è chiaro a tutti che la riforma elettorale, tra le tante e giustificate emergenze del Paese, rappresenta il vero e unico nodo scorsoio piazzato sul collo dell’esecutivo. Se il nuovo meccanismo vedrà la luce, quel nodo si stringerà, il governo spirerà e sarà via libera alle urne.

No, al Colle per dimettermi nel caso in cui il Parlamento non riuscisse a fare la riforma elettorale non ci salgo. Non funziona così: casomai dev’essere Mattarella a chiamarmi. L’ha detto Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno alla Camera. Non l’ha detto proprio così usando quelle espressioni un po’ brutali, perché il garbo e la felpatezza sono tratti distintivi dell’uomo. E in questa fase anche il suo scudo migliore. Però - se non abbiamo capito male - il senso era quello. Ed è un senso che politicamente risulta tutt’altro che trascurabile. Vediamo di inquadrare la situazione. Mettendo da parte infingimenti o ipocrisie, è chiaro a tutti che la riforma elettorale, tra le tante e giustificate emergenze del Paese, rappresenta il vero e unico nodo scorsoio piazzato sul collo dell’esecutivo. Se il nuovo meccanismo vedrà la luce, quel nodo si stringerà, il governo spirerà e sarà via libera alle urne. In caso contrario, il cappio resterà largo. L’interrogativo è: fino a quando?

Ecco, appunto. Il problema è che quella elettorale è la madre di tutte le leggi. E che, allo stato, il fantomatico dialogo tra forze politiche è praticamente un rimpallo fra sordi, e la ancora più fantomatica ampia condivisione nient’altro che un pio desiderio.

Il quadro, infatti, appare sconfortante. Renzi vuole il Mattarellum; Berlusconi punta sul proporzionale; Cinquestelle e Lega anelano a qualsiasi cosa che segni la fine della legislatura. Nessuno parla con gli altri, ognuno è prigioniero delle sua autoreferenzialità. Ergo: la riforma è in alto mare e lì resta. Tutti aspettano la sentenza della Corte Costituzionale del 24 gennaio. Ma intanto non è detto sia definitiva, e comunque per tradurla in legge e armonizzarla con il sistema del Senato serve un accordo sottoscritto da almeno due dei tre partiti maggiori. Giusto?

In teoria. In pratica i margini per una intesa sono fantasmatici e lo stallo potrebbe anche protrarsi per mesi. A quel punto che si fa? Da più parti, per forza di cose sommessamente, fa capolino la tentazione di prendere atto dell’insormontabilità dell’ostacolo e di andare alle urne con i sistemi superstiti: il Consultellum 1 al Senato e, chiamiamolo così, il Consultellum 2 per Camere dopo il taglia e cuci della Consulta. C’è però un problema: per ottenere lo scioglimento, è obbligatorio che Gentiloni salga al Colle per dimettersi accogliendo la tesi che non c’è più nulla da fare. La domanda era: lo farà? E’ disposto il premier a uscire di scena dicendo al capo dello Stato: ok, andiamo a votare con due moncherini e l’armonizzazione la rinviamo alla prossima legislatura? La risposta del presidente del Consiglio risposta è stata quella di sopra. «Mi sento abbastanza innaturale», ha chiosato.

Qurella risposta si porta appresso altre importanti considerazioni. Se infatti la riforma stenta e Gentiloni non si dimette, chi lo costringerà a farlo? Dovrebbe essere il suo stesso partito - il Pd - a votagli la sfiducia, assieme ad altri che non fanno altro da tre anni a questa parte. Non sarebbe un errore; molto di più: un seppuku. Che è il termine che usano i giapponesi per indicare il rituale suicida dei samurai.

Naturalmente è inverosimile ( ma in altri passaggi ed in altre epoche è successo e Dario Franceschini se lo ricorda assai bene) che il Parlamento si palleggi la riforma da una Commissione all’altra, da un ramo all’altro del Parlamento in una melina stucchevole e di lunghezza infinita. Perciò ad un esito - almeno e sempre in teoria - e ad un testo condiviso, ci si dovrà comunque arrivare. Solo che ci vorrà il tempo che ci vorrà, e fino a quel punto il premier avrà le spalle coperte. Poi, come costituzionalmente sancito e dunque come sempre, toccherà a Sergio Mattarella dire l’ultima parola.

E’ in questo lasso di tempo e in queste condizioni politiche che il governo dovrà dispiegare la sua azione di accompagnamento e sollecitazione sulla riforma, mantenendo quel profilo di «spirito di servizio» che Gentiloni ha più volte richiamato. Che però non vuol dire autoassegnarsi un ruolo unicamente notarile, da spetattore. Perciò sarà interessante capire quando scoccherà il gong che costringerà Gentiloni ed il ministro per le Riforme Anna Finocchiaro, a stringere le maglie. E quali dinamiche dentro ai partiti si scateneranno a quel punto. Certo di cose da fare ce ne sono e l’agenda di palazzo Chigi non fa che infittirsi. Gli impegni sul lavoro sono i primi ad arrivare al pettine visto il referendum sul job act che pende. Ma non è che sul fronte del terrorismo jihadista o su quello dei rapporti con la Ue i problemi scarseggino. Per non parlare della giustizia: e bene ha fatto Gentiloni a confermare l’impegno già preso dal Guardasigilli affinchè la riforma arrivi finalmente in porto. Già, Orlando. E’ stato iul più esplicito a dire, dal palco dell’assemblea nazionale del Pd, che il Mattarellum rilanciato una manciata di secondi prima da Renzi, non era la strada giusta. Chissà quanti in cuor loro hanno annuito. Sarà anche e soprattutto questa la sfida che il segretario dei Democrat dovrà affrontare una volta concluso il suo perido di inabissamento. Perché se è il partito che guidi a sfrangiarsi, allora l’esito della corsa è compromesso in partenza. In fondo anche così si spiega la marea di No referendari. Perché sbagliare una volta è lecito, ma due volte diventa un problema.