Se lo dice Rino Formica, noi ci crediamo. I servizi segreti spiavano il Pool di Milano e ne scoprivano le aspirazioni politiche. Prima di tutto quella di Saverio Borrelli di diventare presidente della Repubblica. Certo che ci crediamo. E ne abbiamo le prove. Basta andare indietro con la memoria e riguardare tutto quel che hanno detto e fatto, oltre a Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo.

Gherardo Colombo, l’uomo che ha attraversato tre vite, la prima di giovane magistrato di sinistra e garantista, la seconda di feroce appassionato di manette, la terza di sprezzo per l’uso stesso della carcerazione, ha reso piena confessione un anno fa. Quando ha detto e scritto che negli anni 1992 e 1993, quando lui e gli altri del pool di Milano guidato da Saverio Borrelli avevano distrutto i partiti di governo, nessuno sarebbe andato in carcere se le forze politiche si fossero arrese. La resa avrebbe dovuto consistere nel consegnare ai magistrati “la roba”, cioè il frutto dei finanziamenti illeciti. E poi in dimissioni di massa di parlamentari e amministratori locali, con l’ impegno a non ritornare più in politica. Creare un vuoto, insomma. E questo vuoto chi avrebbe dovuto riempirlo? Solo noi ingenui possiamo aver pensato che, poiché la gran parte degli uomini del Pool era costituita da simpatizzanti della sinistra, il loro scopo politico fosse quello di mandare il segretario del Pd Massimo D’Alema alla presidenza del consiglio. E poi magri Achille Occhetto al Quirinale. Non è mai stato così, nella storia. Chi conquista il Palazzo d'inverno, poi tiene il potere per sé, non lo consegna ad altri. Al massimo offre lo scettro al proprio leader.

Il quale non si è mai tirato indietro. Lui, Saverio Francesco Borrelli, l’aristocratico feroce capo del pool, ha passato gran parte della propria carriera di magistrato in meditazione sorniona, forse in attesa del momento in cui dare la zampata. E il momento arrivò, quando proprio lui in persona si offrì al presidente della Repubblica Oscar Maria Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. Palazzo Chigi, si pensò. Gli imprenditori li aveva già stesi, sia pur con trattamenti diversi tra coloro, come Romiti e De Benedetti, cui fu consentito di evitare carcere facendo un compitino scritto di allusioni più che di ammissioni, e quelli cui non fu regalato niente, fino al suicidio, come Raul Gardini. Nei confronti del mondo politico si riservò più che altro lo sprezzo. Ne pagarono il conto tutti i ministri della giustizia della prima repubblica. A partire da quel galantuomo di Giovanni Conso, sacrificato sull’altare dell’inesistente “Trattativa”, fino al liberale Alfredo Biondi, cui Borrelli diede dell’ubriacone, dicendo che non ci si poteva fidare delle sue condizioni “a un’ora tarda della giornata”. E poi lo gettò in pasto alla peggiore gogna mediatica dopo il suo decreto sulla custodia cautelare. Ma ancora oggi, nessuno degli uomini del pool (tranne Borrelli e D’Ambrosio, gli altri sono vivi e vigorosi) dà una spiegazione su quei numeri che esplicitarono come, dopo il ritiro del decreto, meno del 10 per cento dei detenuti che nel frattempo erano stati scarcerati fu riarrestato. Ma Saverio Borrelli aveva le idee chiare sulla politica e sui politici. Si era opposto al rientro da Hammamet in Italia di Bettino Craxi perché un’operazione gli salvasse la vita. Così come non aveva mai manifestato umana pietà nei confronti dei 41 suicidi di Tangentopoli. Ma anzi santificava in questo modo il profumo delle manette: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?». Rileggere la storia con una notizia in più, quella che ha rivelato Rino Formica al Corriere sulle sbirciatine dei servizi nelle aspirazioni degli uomini del pool, certamente aiuta. Ma la storia erano già la sentenza del giudice Maddalo di Brescia su Di Pietro e le sue ambizioni politiche che si sono poi concretizzate nella creazione di un partito, in candidature e posti di governo. E poi le due legislature in Senato nel gruppo del Pd di Gerardo D’Ambrosio. Ma è la vita di Saverio Borrelli che parla. Perché, dopo che si era offerto al presidente Scalfaro per palazzo Chigi, aveva trovato un ostacolo imprevisto sul suo cammino nella figura di un imprenditore che, al contrario della maggioranza di Confindustria, non si era piegato. E, quando il procuratore gli aveva sibilato “chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”, era corso a presentarsi alle urne e aveva vinto. Berlusconi è stato proprio la spina nel cuore di Borrelli. Non è stato il contrario, come si potrebbe credere. Probabilmente, al di là degli aspetti giudiziari, l’alto magistrato non ha sopportato la capacità di conquista del potere da parte di una persona che lui considerava inferiore per cultura e preparazione politica. Sarebbe sbagliato interpretare come esternazioni di tipo giudiziario o moralistico quel grido disperato al suo popolo, del “resistere resistere resistere” nel tempio dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Quel giorno con la sua relazione di procuratore generale, era il 2002, Saverio Borrelli aveva detto ai suoi che il leader politico era lui, non quell’usurpatore brianzolo. E il testamento che lasciò quando chiese «scusa per il disastro seguito a mani Pulite. Non valeva pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale», fu il suo atto politico finale. Era il 2011. Morirà otto anni dopo, senza esser diventato presidente del consiglio né inquilino del Quirinale. Ma leader politico, quello si.