In fondo Matteo Renzi non ha tutti i torti quando dice che la personalizzazione del referendum sulla sua figura sono soprattutto i suoi avversari a ceercarla. Per forza: se centrodestra e grillini intendono spingere i loro supporters a recarsi alle urne (è bene ricordarte che il referendum confermativo sulle modifiche costituzionali non ha quorum: vale anche se a votare si recano solo in tre, di numero), non possono far altro che sventolare davanti ai loro occhi la sagoma del premier, come fosse un drappo rosso indirizzato al toro nel corso di una corrida. Solo così infatti, solo cioè facendo intendere che la posta in palio con la vittoria del No è la cacciata da palazzo Chigi dell'«abusivo» in quanto «non eletto» (copyright di Brunetta) capo del governo, sarà possibile mobilitare in massa l'elettorato d'opposizione.Già. E il medesimo presidente del Consiglio che fa, come reagisce? Il dato politicamente più ostico da maneggiare è che quel tipo di personalizzazione se l'è inventata Renzi stesso quando immaginava una marcia trionfale di Sì. Adesso le cose sono cambiate, ma sarà lo stesso molto difficile - soprattutto man mano che la campagna elettorale prenderà vigore - ammainare quel «se perdo lascio». Volenti o nolenti, saràquesto lo spartiacque vero.Ciò non toglie però che almeno un tentativo per allontanare l'attenzione sull'aspetto più urticante si può fare. Per esempio mettendo la sordina ai proclami tonitruanti; lasciando sullo sfondo il Moloch della legge elettorale; provando a insistere sul contenuto della riforma e sul suo carattere "di cambiamento"; sul fatto che non c'è un'alternativa in campo: c'è solo il testo del governo oppure tutto resta così com'è.Concentrandosi - ed è questa l'opzione principale che sta maturando - sulla vera golden share che è totalmente nelle sue mani: l'azione di governo.E infatti. Sta qui la chiave per comprendere lo scontro - a tratti surreale appunto per la per la sua incomprensibilità - sulla possibile data di svolgimento della consultazione popolare sul nuovo Senato. Abbandonati per strada i propositi anticipatori, l'idea che prende piede è di spostare la chiamata alle urne a fine novembre non tanto per guadagnare qualche settimana di propaganda quanto perchè in questo modo la legge di Stabilità, cioè in sostanza la vecchia Finanziaria, verrebbe approvata almeno da un ramo del Parlamento. E' lì, con quel provvedimento, che il premier conta di assicurarsi i consensi che latitano. Perchè con quella legge ci sarebbe la possibilità di allargare i cordoni della borsa, intervenire sul fisco e, perché no?, riproporre sotto mutate forme l'operazione 80 euro che tante fortune elettorali ha provocato.Allora risolto? Macché. La realtà è molto più complicata. La realtà si chiama mancata spending review con tanti saluti a Cottarelli e, dunque, risorse non sufficienti per operazioni di bilancio di forte impatto. Sotto questo aspetto, la spia del disagio renziano si percepisce laddove il premier lamenta le «trappole» lasciate da Monti e Letta, tipo le clausole di salvaguardia con il rinvio dell'aumento dell'Iva da finanziare anno dopo anno, che impediscono politiche espansive. Bisogna allora volgere lo sguardo a Bruxelles per aumentare lo spazio di manovra sulla flessibilità, magari prendendo spunto dalla mancata erogazione di infrazioni verso Spagna e Portogallo che pure hanno sforato i parametri di bilancio. Ma anche qui più facile a dirsi che a farsi. Sicuramente una manciata di risorse verrà individuata e, presumibilmente, concessa. Però anche in questo caso non ai livelli che servirebbero a Renzi. Pure la Merkel, infatti, ha i suoi problemi elettorali e allargare i cordoni finanziari non rientra nelle sue intenzioni. Senza dimenticare che alla signora Angela le invettive renziane sulle trappole di cui sopra non devono piacere molto visto che la sterilizzazione dell'aumento Iva e non solo rappresentarono a suo tempo una diga per frenare la speculazione che altrimenti avrebbe rischiato di travolgere i tenui argini finanziari italiani. Fu insomma il frutto di una serrata trattativa con la Ue nella quale i predecessori di Renzi (e perfino il presidente Napolitano) impegnarono la loro autorevolezza. Rivangare, criticandoli, quei risultati potrebbe risultare irritante per Berlino, e così non predisporre benevolmente la Cancelliera rispetto alle richieste di Roma.Insomma dopo tanto peregrinare si torna al punto di partenza: la partita referendaria e i pericoli che sottende. Che l'abbia evocata lui prima o che lo facciano i suoi avversari ora, il risultato non cambia: la personalizzazione, intesa come messa in gioco della premiership, c'era e rimane. Se vince il No, Renzi resta o no a palazzo Chigi? E se vince il Sì, come gestirà il premier quel successo, in particolare nei riguardi della sinistra interna e degli alleati di governo tipo Ncd? Si vedrà. Nel frattempo compitare i sondaggi non è un bell'esercizio per il presidente del Consiglio. A parte qualche eccezione, la maggioranza degli istituti di rilevazione insiste a certificare che da un ballottaggio con i Cinquestelle l'attuale capo del governo uscirebbe sconfitto. Mentre il distacco tra Pd e grillini resta notevole: circa dieci punti a favore dei secondi. Si tratta di cifre che, allo stato, misurano nient'altro che intenzioni di voto, suscettibili quindi di cambiamenti anche vistosi. Tuttavia proprio quelle cifre confermano che il clima resta negativo. Numeri inoltre che contribuiscono a lasciare aperta anche un'altra piaga: quella dell'Italicum da cambiare. Terreno minato, non meno del reperimento di risorse per far sorridere gli elettori modificandone la propensione a privilegiare non Renzi ma chi gli si oppone.