Sostenere, come ha fatto il premier Paolo Gentiloni alla Camera, che un esecutivo dura in carica «fin quando ha la fiducia del Parlamento» , in altri contesti ed in altri momenti sarebbe apparsa una considerazione lapalissiana, quasi una banalità. Il fatto che invece diventi la cifra politica e programmatica del governo che ha esordito ieri, conferma lo stato di difficoltà ed il clima di sospetto che aleggia nel Palazzo. Altro che banale: dire che si va avanti finché c’è una maggioranza che ti sostiene equivale a ricordare che solo un voto di sfiducia palese può costringere all’addio. Significa trasmettere alle Camere il significato e la portata dell’incarico che il presidente Mattarella ha consegnato al successore di Matteo Renzi. Significa, anche e soprattutto, stabilire fin d’ora quale dovrà essere l’eventuale epilogo del  «governo di responsabilità» che Gentiloni guida: nelle aule parlamentari, con un esplicito voto di sfiducia secondo le migliori tradizioni prodiane.

Se le cose stanno così, le parole del presidente del Consiglio tracciano un percorso che dovrebbe mettere in guardia i sostenitori del voto subito, indipendentemente dal fatto che si annidino dentro o fuori la maggioranza.

Nessuno può derubricare l’impatto che i 19 milioni di No hanno avuto sul quadro politico: massimamente non può farlo il Pd nonostante non abbia ancora trovato il tempo e il modo per un’analisi approfondita del verdetto referendario. E perciò non sbaglia il presidente del Nazareno, Matteo Orfini, quando sostiene che «è impensabile» che Gentiloni porti la legislatura fino alla scadenza naturale del 2018. Il verdetto del 4 dicembre è una pietra tombale, non c’è dubbio. Altrettanto impensabile, tuttavia, è immaginare che all’esistenza di un governo e di una maggioranza si possa mettere fine con la stessa disinvoltura e noncuranza con la quale si spinge l’interruttore della luce. Nè si può restare incollati alla poltrona quando la stragrande parte delle forze poltiche vuole andare alle urne. Intendiamoci: molte cose - di più, quasi tutte - remano contro il premier. A cominciare dalla guerra fratricida che sconvolge il Pd per finire alla defezione dell’ultim’ora di Verdini, che qualche maligno immagina addirittura di poter far risalire a Renzi con l’intenzione di restringere al massimo fin da subito i margini di manovra del nuovo governo.

Il punto decisivo è che mettere fine alla vita di un esecutivo è un atto politico di non trascurabile entità: richiede passi specifici e comporta conseguenze politiche importanti. La mission principale del governo Gentiloni è « armonizzare » il meccanismo elettorale di Camera e Senato, tenendo conto delle indicazioni che arriveranno dalla Corte Costituzionale il 24 gennaio e che però potrebbero anche non essere definitive. Stilare una legge elettorale è il compito più difficile che ci sia perché su di essa si riversano le aspettative e i desideri - per forza di cose contrapposti - di tutti i partiti. Perciò o si realizza un accordo politico forte tra i principali leader oppure ci si infila in un ginepraio per uscire dal quale possono essere necessari anche mesi. Nè Gentiloni appare in grado di usare le armi sbrigative del suo predecessore con voti di fiducia a raffica. Il neo ministro Anna Finocchiaro è persona misurata, competente e capace. Ma lei per prima sa che il compito che la attende provoca i brividi. Peraltro l’iniziativa degli stati maggiori berlusconiani di individuare una piattaforma comune con Lega e Fdi e poi presentarsi al confronto in Parlamento, lascia intendere che eventuali trattative dirette Berlusconi- Renzi minacciano di risultare assai più impervie rispetto ai tanti che le vagheggiano.

Ciò nonostante, anche se le cose filassero tutte lisce - tipo nuova legge approvata entro marzo per poi andare a votare a giugno considerato l’obbligo di almeno un mese e mezzo di campagna elettorale non per questo il traguardo dell’eutanasia risulterebbe facilitato. Una volta approvata la riforma, infatti, cosa dovrebbe fare Gentiloni: andare al Quirinale e chiedere lo scioglimento? E’ una prorogativa che spetta al capo dello Stato: sarà lui a dover verificare. Per forzare la mano, e già siamo sul filo del rasoio della convenienza a fini elettorali, il premier dovrebbe presentarsi dimissionario, cosa senz’altro possibile, anzi verosimile. Che succederebbe a quel punto? Mattarella potrebbe essere indotto a verificare la sussitenza di una maggioranza in Parlamento. Perciò per ottenere le elezioni ( e non incappare, sotto altre vesti, in un nuovo caso Marino) l’attuale coalizione, verdiniani o meno, dovrebbe autoaffondarsi con un voto di sfiducia. O quanto meno provocare un incidente di percorso di valenza simile.

Scenari scarsamente lineari che i cittadini, specie quelli che votano centrosinistra, faticherebbero a comprendere.

In attesa che la situazione si chiarisca (non va dimenticato che in primavera presumibilmente si voterà anche per il referendum sul job act: il governo Gentiloni che posizione assumerà?) saggezza consiglierebbe di concentrarsi sui problemi più stringenti. Primo fra tutti il confronto con la Ue e la messa in sicurezza dei conti pubblici.

CARLO FUSI