Marco Minniti ha lasciato la politica, ma difficilmente la politica lascerà Marco Minniti. Per l’ex ragazzo prodigio di Reggio Calabria è questione di sopravvivenza. Meglio: «È una scelta di vita». Domenico all’anagrafe, Marco (o Marko nella variante balcanica) ha la storia già scritta nel nome: mamma e papà gli hanno dato quello del nonno per rispettare la tradizione del figlio maschio, ma a spuntarla alla fine è stata la vicina di casa di origine serbe. La quale, avendo perso tutta la famiglia in una rappresaglia tedesca, aveva indovinato il sesso dalla rotondità del pancione in cambio di una promessa: quel figlio così a lungo desiderato porterà il nome di suo fratello morto ammazzato. Marco, appunto.

Così Minniti ha la prima crisi di identità all’asilo, quando scopre come si chiama. Poi quando si mette in testa di fare il pilota e sua madre glielo impedisce. In entrambi i casi aggira l’ordine e fa come gli pare: resta Marco e se ne va con i comunisti. Un po’ per reazione al padre militare dell’Aeronautica, un po’ perché con le barricate in città il Pci è l’unico scudo che gli permette di varcare i cancelli del liceo classico. Possiamo dire che il ministro di ieri è l’adolescente dell’altro ieri che si batte per andare in classe: vuole studiare e nessuno può mettersi di traverso, neanche i picchetti. Siamo nei moti di Reggio, anni ‘70. Minniti ha 14 anni e la rivolta esplosa nell’aspirante capoluogo calabrese gli segna la strada. «Reggio entrò in un cono drammatico: la città era divisa in varie repubbliche, e per andare a scuola bisognava passare i confini segnati dalle barricate. I manifestanti sorvegliavano il passaggio e controllavano i documenti, lo Stato non c’era». La rivolta di popolo diventa un fatto politico: a Reggio Calabria uno su due vota MSI, la città è «il punto nero dell’Italia delll’epoca». E così Minniti, lo abbiamo detto, si avvicina al Partito comunista: è un modo di «fare comunità». Ma anche una scelta “obbligata”, per chi voleva «contrastare quella deriva». Cioè il “Boia chi molla!”, l’uso della violenza per negare ogni diritto. «Dai 14 ai 20 anni non ho mai messo un piede sulla via principale».

Però a scuola alla fine ci va, Minniti, e nonostante la militanza a sinistra sogna ancora di iscriversi all’Accademia Aeronautica. Al niet della madre segue una scelta ben più “infelice”, per la famiglia: la facoltà di Filosofia. Ma per farci cosa, si domandano tutti? «Io sono l’esito dell’ossessione del figlio maschio. E il fatto che il figlio maschio si laureasse in filosofia era considerata una cosa totalmente inutile». Soprattutto per il padre, che nutriva quella cultura militare nella quale è maturato il politico. «Certamente è un pezzo importante della mia vita, ma contemporaneamente avevo un carattere non facilmente ascrivibile a un sistema militare». Minniti dice di essere allergico agli ordini e all’autorità, ma non si può dire che abbia la fisionomia del ribelle. Semmai del testardo? «Ho una forte volontà di difendere la mia autonomia». Tant’è che Minniti non ha “debiti”, né rimpianti. «Non devo nulla a nessuno». E nessuno può fargli cambiare idea, dice. Se fa una scelta non torna mai indietro: vale per il Parlamento ma anche per tutto il resto. Fuori e dentro i Palazzi di Roma.

Prima c’erano stati gli anni complicati nella piana di Gioia Tauro, responsabile del Pci a 22 anni. Sono gli anni delle bombe e del primo omicidio politico per mano della ‘ndrangheta, l’assassinio di Giuseppe Valarioti. Minniti lo ricorda bene: erano amici, lui segretario di zona del Pci, l’altro segretario della sezione di Rosarno. Si sentono l’ultima volta con la promessa di una cena. Una promessa “infranta” con quella terribile telefonata che assegna a Minniti il peggiore dei compiti: spetta a lui comunicare la notizia ai genitori di Valarioti. Ci domandiamo se sia questo il momento in cui il futuro ministro decide di “rompere” con la Calabria. Ma la paura non c’entra, e non sembra neanche rientrare nel vocabolario di chi abbiamo di fronte. È un’altra la storia che porta Minniti ad «abbandonare tutto». Un banale screzio, per la verità, che però racconta molto del personaggio: «Non accetto le prevaricazioni», dice. E di solito se ne va prima che lo mettano alla porta, anche quando non c’è rischio che accada.

Il fatto è che Minniti non vive di ultime spiagge. Si costruisce sempre un’alternativa. Non sopporta l’invadenza o, peggio, di risultare invadente. «Se ho la sensazione di essere un peso, scompaio». Fatto sta che l’alternativa Minniti se la costruisce eccome, anche se «nascere a Reggio Calabria non è come nascere a Milano». Dopo aver fatto il colpaccio di voti in Calabria contro ogni pronostico, pur senza essere eletto, si fa notare anche a Roma. E da lì, il resto è storia. Sottosegretario di Stato, poi viceministro, e infine titolare del Viminale nel governo Gentiloni. Il ministro di ferro, sempre con un piede dentro i servizi segreti. “Il signore delle spie”. Anzi: “Lord of the Spies”, copyright del New York Times. «Per un italiano, per uno che viene da Reggio Calabria, ricevere un titolo a tutta pagina... Diciamo che è un bel riconoscimento, soprattutto da parte di un paese anglosassone». Gli inglesi, infatti, si considerano i numeri uno dell’intelligence, e a buon diritto, dice Minniti. Ma anche lui non scherza. E difatti l’attuale presidente della fondazione Med-Or di Leonardo è uno fluviale, a suo modo, uno che non si risparmia. Ma temiamo che ci siano molte più cose tra le parole che invece non dice.

Noi ci accontentiamo delle altre, rubando qua e là. Tra i manifesti e le foto che lo rappresentano alle pareti e gli episodi più gustosi che ci concede. Un esempio? Quando si insedia la prima volta come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e gli installano il famoso telefono rosso. Minniti è convinto che non squillerà mai, e invece quello squilla subito, per annunciare che Öcalan sta arrivando in Italia. Un bel dossier, per chi avrebbe dovuto occuparsi dell’Editoria. Poi c’è il capitolo Mediterraneo e migranti, le politiche di sicurezza con i Codici che portano il suo nome e le infinite polemiche di chi lo vede in pari con la destra più che con la sinistra. Ebbene, oggi i tempi sono maturi: se ne è pentito, del Memorandum con la Libia? «No, è la ragione è semplicissima: quando hai una responsabilità di governo prima di fare qualcosa ci pensi a lungo». Minniti non è certo uno sprovveduto, insomma, e anzi rivendica tutto. Ha le sue ragioni e le sue convinzioni, tra cui l’idea che non basta denunciare, bisogna cambiare le cose: «Sono un riformista», ripete l’ex ministro. Che se ne sta con i piedi ben piantati nel terreno, sospeso tra il cielo e gli abissi: cioè tra la passione per il volo e quella per l’apnea. Forse gli unici due hobby che il presidente Minniti si permette di rendere ovvi dentro il proprio universo politico, a giudicare dai modellini di pregio che vanta sugli scaffali.

Poi ci sono i manifesti e le foto, dicevamo. Le immagini che parlano della sua vita privata: sua moglie, Mariangela, due figlie. E ben cinque cani e due gatti. Se ne stanno tutti, quando possono, nel faro di Capo Spartivento, nel punto più a Sud dell’Italia continentale. Una scelta che riflette come uno specchio il giovane Minniti tutto solitudine e timidezza. Ma anche il Minniti di oggi, quello un po’ mistico, tutto cabala e superstizioni, a cui scappa ancora qualche erre di troppo dentro l’eloquio forbito. Deve trattarsi di un vezzo, pensiamo noi, perché a Minniti in verità non scappa nulla. È uno che persino in pieno lockdown indossava il completo di prima mattina, barba fatta e profumo. «Non sopporto quelli che si lasciano andare», dice. Ma sarà capitato anche a lei, di bere un bicchiere di troppo? «Sono astemio...».