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La Segretaria PD Elly Schlein ospite della trasmissione condotta da Bruno Vespa. Sullo sfondo l'immagine di Giorgia Meloni (LaPresse)
La telefonata di Elly Schlein a Giorgia Meloni, subito dopo l'attacco iraniano contro Israele, è uno dei pochi casi nei quali la segretaria venuta dall'esterno del Pd ha dimostrato di voler fare politica e non solo propaganda. Proprio per questo è una mossa destinata a non essere dimenticata nel giro di pochi giorni o poche ore ma che apre prospettive parzialmente nuove. La leader del Pd, a questo punto, sa di non potersi fidare di Conte.
L'esperienza di Bari e della Puglia le ha dimostrato con quanta spregiudicatezza sappia muoversi l'avvocato e quanto sia pronto a sfruttare rapidamente e senza alcuna remora le debolezze e le difficoltà dell'alleato. Schlein, però, non ha alcuna intenzione di prestare orecchio alle sirene della minoranza e revocare in dubbio la strategia centrata tutta e solo sull'alleanza con il M5S. Sa perfettamente che senza quell'accordo non ci sarebbe possibilità di vittoria alle elezioni politiche e la situazione diventerebbe ancor più difficile in molte regionali.
Da quel punto di vista è decisa dunque a non smuoversi di un millimetro. Ma l'assedio dell'ex premier alla sua leadership non può essere minimizzato e Schlein ha probabilmente capito anche che non si può limitare a rinviare il problema al futuro, quando le elezioni saranno vicine. Perché Conte, invece, è già all'attacco.
Il colloquio con la premier, che pure risponde anche a sincere esigenze istituzionali in una fase così rischiosa, va inquadrato in questa situazione: la cornice è la necessità di rintuzzare subito l'arrembaggio alla premiership e alla guida della coalizione di un alleato necessario, anzi indispensabile, ma infido. Con quella telefonata la segretaria del primo partito d'opposizione si è posta di fatto, per così dire “praticando l'obiettivo”, come leader dell'intera coalizione ancora in via di costruzione. Schlein sapeva di trovare nella rivale di palazzo Chigi la necessaria sponda: la premier ha fatto capire più volte e in tutti i modi di volersi misurare, quando sarà il momento, con Elly e non con Giuseppe, che considera più pericoloso e temibile.
Quella sponda non è mancata. Le dichiarazioni di entrambe le leader, il giorno dopo, sottolineavano che la convergenza sulla politica estera non modifica la contrapposizione su tutto il resto. Solo che la politica estera, in particolare in questo momento, non è un fronte tra tanti. Non lo è perché si tratta del punto principale nelle agende di tutti i leader del mondo, quello che orienta e condiziona tutto il resto. Ma non lo è, nel piccolo del quadro politico italiano, perché è sul fronte della politica estera che si registrano le tensioni principali sia nel centrodestra, con la Lega, che nel Campo che verrà, con il M5S. Blindare grazie al dialogo fra le due principali forze della maggioranza e dell'opposizione quel fronte significa mettere con le spalle al muro sia Salvini, che comunque ha già ben poca libertà di movimento, sia Conte, che invece ne ha moltissima.
È vero che l'avvocato potrebbe provare a intestarsi la rappresentanza di tutte le aree contrarie a quella politica estera a sinistra, quelle che considerano la linea di Joe Biden timida e insufficiente in Medio Oriente e sbagliata in Ucraina. Ma forzare troppo significherebbe per il leader dei 5S forse fare il pieno di voti ma dover rinunciare a ogni ambizione di governo e la segretaria del Pd ha certamente capito che invece Conte quelle ambizioni le nutre tutte e non intende affatto tornare a un Movimento destinato all'opposizione permanente.
Del resto, non è detto affatto che la politica estera rimanga l'unico tavolo sul quale è possibile intrecciare un dialogo. L'uscita di Draghi ieri, «proporrò un cambiamento radicale per la Ue», non sembrava pronunciata da un uomo davvero deciso a fare «solo il nonno». La realtà è che l'ex presidente della Bce sta tornando in campo e anche se ancora non si può indovinare in quale veste tenterà di pilotare l'Unione non è affatto escluso che quella veste possa essere ufficiale, presidente della Commissione o del Consiglio europeo. In quel caso la convergenza delle due principali forze politiche italiane sarebbe molto probabile:
il legame del Pd con Draghi è noto ma la stessa premier, pur essendo stata leader dell'unico partito che si opponeva al suo governo, ha stretto con Super Mario un rapporto di fiducia più solido di molti tra i leader della maggioranza di Draghi. Anche in questo caso la Lega e il M5S, le due forze antidraghiane nel panorama politico italiano si troverebbero stritolate dal “dialogo” tra le due rivali.