Dietro i riflettori della Brexit, nel salottino nostrano, due questioni minacciano di diventare sempre più ingombranti visto che sollevano altrettanti quesiti al momento privi di risposta. Il che disegna la peggiore condizione possibile: quella della massima incertezza. Le domande, strettamente collegate, sono diverse.Primo: perché e per quali obiettivi i Cinquestelle hanno effettuato una virata così sorprendente buttando a mare l’oltranzismo sull’Europa, pur restando furbescamente a braccetto di Farage per votare contro il direttorio Merkel-Hollande-Renzi. Secondo: considerando la rilevanza che la questione Ue avrà sul verdetto finale, un cambiamento d’approccio così radicale avvantaggia Matteo Renzi nella battaglia referendaria di ottobre o rappresenta un più insidioso pericolo?Ovviamente alla prima domanda, la risposta vera ce l’hanno solo i grillini. O magari unicamente Beppe Grillo in persona. Alla seconda, nessuno è adesso ragionevolmente in grado di rispondere. Però, però... Proprio per questo sono domande che più passano i giorni meno possono essere eluse.Per inquadrare al meglio la giravolta pentastellata bisogna partire dal contesto. E precisamente: qual è lo spettro sotterraneamente ma furiosamente agitato dal premier e, in generale, dall’establishment (termine sessantottino di marcusiana memoria tornato inaspettatamente in auge) per inibire eventuali tentazioni a votare No? Che “après lui, le deluge”; che se Renzi perde, l’intero sistema implode su se stesso; le riforme si bloccano per altri vent’anni almeno; la speculazione metterà di nuovo l’Italia nel mirino e la famigerata lady Spread riprenderà i fasti di un tempo. Perciò, vade retro. Un mantra che al Quirinale recitano con particolare devozione. Se invece vincono i Sì, la stabilità finisce direttamentre come stemma onorifico nel Tricolore con somma soddisfazione di Bruxelles; il capo del Pd si sbarazza una volta per tutte dell’opposizione interna; l’Italicum diventa priorità politica e il cerchio magico fiorentino stappa champagne.Ma è davvero questo, in entrambi i casi, lo scenario? Non proprio.Infatti contro il catastrofismo renziano e ad ammonire apprendisti stregoni in esercizio permanente effettivo, è già sceso in campo prima dell’affaticamento cardiaco Silvio Berlusconi: se vince il No, come l’ex Cav auspica, la soluzione è un bel governo di larghe intese Pd-FI per scrivere la legge di Stabilità e riscrivere quella elettorale. Più facile a dirsi che a farsi, però. Se non altro perché a quel punto il Pd non si sa se ci sarebbe ancora: orbato della leadership e messo knock out dalle urne, potrebbe sopravvivere? Dunque quel governo di emergenza nazionale Silvio dovrebbe costituirlo con altri: con i leghisti No euro di Salvini e Meloni? Recuperando i centristi di Alfano? La fantapolitica va bene, ma ci sono limiti comunque invalicabili.Qui entrano in scena i grillini. Sbandierare ai quattro venti che l’appartenenza dell’Italia alla Ue non è in discussione significa annunciare che il No al referendum non comporta obbligatoriamente l’Italexit. Significa confermare che il Movimento è cresciuto anche in senso di responsabilità e capacità di interlocuzione ferme restando, of course, le fortissime critiche all’attuale funzionamento dell’Europa. Significa dire ai mercati che il Vaffa ha pieno corso legale anche nei riguardi della speculazione. Significa soprattutto far intendere al Colle che se Matteo lascia, nelle consultazioni ed in Parlamento - così come già successo nei trionfi di Roma e Torino - prevarrà la ragione invece della pancia. Altro che deluge in vista: Luigi XV e madame Pompadour stanno bene nei libri di storia e i Cinquestelle possono tranquillamente essere forza di governo.Su quest’abbrivio, arriva la seconda domanda. Che a questo punto, tuttavia, contiene già in sè la risposta. Una cosa infatti è avere come competitor un esercito di barbari che minacciano devastazioni; un’altra un dirimpettaio dal volto rassicurante pur se fieramente avverso. Naturalmente per Renzi il secondo copione è assai più rischioso e subdolo, certamente più difficile da maneggiare. Se la voragine avventurista viene sgombrata via e se lo scettro del cambiamento non è più solitario appannaggio dell’inquilino di palazzo Chigi, il perimetro della competizione cambia. Non in modo necessariamente positivo per il presidente del Consiglio.Basta? No, non basta. C’è anche un altro filo da tirare. Riguarda la cosiddetta Santa Alleanza, ossia l’ammucchiata di tutti coloro che nel linguaggio renziano si oppongono alla riforma del Senato (e alla nuova legge elettorale). Pure questa è una delle armi preferite del capofila del Sì: rappresentare agli elettori un match nel quale da un parte c’è chi vuole finalmente cambiare le arrugginite regole del gioco e rimettere l’Italia al passo con i partner europei mentre dall’altra ci sono le forze della conservazione e dell’inciucio variamente dispiegate su un ventaglio di valutazioni tutte però determinate a lasciare le cose come stanno.Per contrastare questo tipo di raffigurazione, la scelta più conveniente è che ogni componente che vota No sia politicamente ben individuata e distinta dalle altre altre. E’ il ragionamento che fanno vecchi leader tipo Massimo D’Alema o Gianfranco Fini, entrambi aderenti a tavoli o comitati per il No ma ciascuno con la propria specificità. E’ un ragionamento che vale anche per i Cinquestelle. Anche loro decisamente per il No, anzi in primissima fila e pronti ad essere i più beneficiati di un eventuale capitombolo renziano. Però anche portatori di un No diverso nelle forme e nelle intenzioni di quello, per dire, della Lega o di Berlusconi. Privo di sfascismo o collusioni.Conclusione. Magari le risposte alle famose due domande sono immaginifiche. Ma la realtà politica del cambiamento grillino invece no: quello è vero. Ed è destinato ad incidere.