sul diritto negato al “voto disgiunto” e al voto di preferenza che si sono addensate le critiche alla nuova legge elettorale ( Rosatellum). Nessun sostenitore l’ha spacciata come il “miglior modo possibile” per eleggere il nuovo Parlamento. Ma l’impressione è che densità e ferocia delle critiche siano frutto della sfibrante campagna elettorale in corso ormai da un anno, cioè da prima del referendum costituzionale bocciato dal No.

Stabilire cosa sia con precisione e quali vantaggi o svantaggi provochi il voto disgiunto è impresa straordinariamente difficile perché sul tema non esiste una specifica letteratura dell’indagine politologica né della cultura politica. Una circostanza che dimostra la marginalità dell’istituto che tanto appassiona i suoi recenti sponsor. In Italia, per restare al nostro paese, nei primi 47 anni repubblicani ( 1946/ 1993) si è votato col proporzionale; nessuno ha mai saputo del voto disgiunto né ne ha sentito la mancanza proponendolo. Gli elettori votavano con due schede: una, per la Camera, scegliendo il proprio partito e uno o più dei suoi candidati; l’altra, per il Senato, indicando un partito e automaticamente il suo unico candidato. Solo nei 12 anni 1993/ 2005 del Mattarellum, un sistema 25% proporzionale e 75 maggioritario, fu possibile votare, ma soltanto per la Camera, in modo disgiunto perché l’elettore riceveva due diverse schede che finivano nelle diverse urne del proporzionale e del maggioritario. Al Senato, invece, con una sola scheda l’elettore sceglieva il proprio partito ( per la quota proporzionale) e automaticamente il candidato del collegio ( quota maggioritaria) che poteva far parte di un partito diverso da quello dell’elettore ma con esso alleato. Quindi, niente voto disgiunto. Insomma, nei 71 anni che abbiamo alle spalle il voto disgiunto è stato esercitato, si badi bene in un solo ramo del parlamento di un sistema perfettamente bicamerale, soltanto una dozzina d’anni. In quel breve periodo, comunque, il voto disgiunto alla Camera fu un “acci-È dente” e mai la “sostanza” dovuto alla necessità della doppia scheda: una per il proprio partito, l’altra per le alleanze. Nessuno teorizzò che fosse possibile e più democratico dare all’elettore la possibilità di votare nello stesso tempo per i comunisti e i fascisti, i cattolici e i nemici della Chiesa, i rossi e i bianchi; secondo l’attuale rivendicazione. Secondo la dottrina politologica lo sfondo teorico dell’uninominale è connesso alla difesa del proprio territorio e non alla scelta partitica.

Il Rosatellum rilancia il sistema misto proporzionale- maggioritario. E, al contrario di quel che ( falsamente) si sostiene, per la prima volta sembra teorizzare la valenza del voto disgiunto: sulla stessa scheda e a condizione che la diversa opzioni dell’elettore si eserciti tra partiti affini e comunque alleati. Sull’unica scheda si potrà scegliere al proporzionale il Pd e al maggioritario Ap o Sc o Pisapia o Mpd, se tali partiti saranno alleati, o viceversa. Non sarà possibile, invece, esercitare il voto disgiunto se l’elettore pretende di votare insieme partiti non alleati, per esempio la Meloni e Vendola. All’elettore verranno consegnate due schede: una per la Camera, l’altra per il Senato. Alla Camera può votare il solo candidato ( unico) del maggioritario e il suo voto, per la parte proporzionale, verrà in questo caso proporzionalmente diviso tra tutti i partiti alleati. Se invece voterà solo il simbolo di partito del proporzionale il voto andrà automaticamente al candidato del maggioritario deciso dalla coalizione. Può infine votare sia il candidato del maggioritario che un partito del proporzionale al quale il voto verrà pienamente assegnato.

E’ un sistema perfetto? Certo che no. Per Giovanni Sartori, caposcuola dei politologi italiani, quando si mescolano proporzionale e maggioritario nasce un Minotauro, corpo umano e testa d’animale. Meglio, per Sartori, il doppio turno maggioritario. Il Rosatellum è migliore del sistema lasciato in piedi dalla Corte della Corte costituzionale dopo i suoi interventi “pasticciati” ( copyright D’Alimonte)? Molti osservatori dicono di Sì. Gli altri non spiegano cosa si sarebbe dovuto, e soprattutto potuto, fare tenendo conto dei rapporti di forza nell’attuale parlamento.

Sul voto di preferenza, su cui il Fatto quotidiano ha avviato addirittura una raccolta di firme per sostenerlo, il discorso è più semplice grazie a una tradizione di conoscenze e verifiche accumulate. La preferenza appare alla maggioranza di studiosi e analisti come un istituto potenzialmente criminogeno e nel caso migliore un regalo all’espansione clientelare. La preferenza è, in larghissima parte, lo strumento di chi si offre come cliente e non un’opportunità di scelta. I dati sono impietosi. Per il Consiglio regionale della Lombardia usa la preferenza il 14% dei cittadini, in Calabria e Sicilia, l’ 80% circa. Solo ingenui e furbissimi saldano preferenza e libertà di scelta spacciando la miscela come ostacolo all’inquietante fenomeno dei “nominati”. La preferenza inoltre moltiplica in modo vertiginoso i costi della politica avvantaggiando i più ricchi, la corruzione, spesso le mafie ( e forse se invece di farti “nominare” da un partito ti nominano corrotti, mafiosi, clientes è perfino peggio). Non a caso il ( discutibile) reato di voto di scambio s’è abbassato ai tempi dei “nominati” col Porcellum ed ha conosciuto alti picchi nelle competizioni comunali e regionali dove c’è la preferenza. E non soltanto al Sud. Solo primarie obbligatorie per tutti disciplinate dalla legge o un sistema interamente uninominale può creare problemi a “nominati” e corrotti. Scorciatoie demagogiche non servono a nulla se non a raccattare il consenso di qualche sprovveduto.