Oggi i leader della destra si incontreranno a Montecitorio e in un certo senso sarà il primo vero vertice. Sin qui i summit si erano sempre snodati tra una portata e l'altra a villa Grande, con Silvio anfitrione. È stata Giorgia Meloni a insistere per un po' di formalità in più, con il palese obiettivo di quagliare e non proseguire col gioco al rinvio. Per lo stesso motivo, alla vigilia, è andata giù dura: «O siamo d'accoro sul candidato premier oppure è inutile stare in coalizione». Un aut aut, anche se malposto. L'accordo a cui mira la leder di FdI non è infatti sul nome del candidato ma sul metodo. Per lei vale quello di quattro anni fa: il partito che prende più voti indica il premier. È certa che quel partito e quel nome saranno i suoi. Berlusconi punta i piedi. Salvini ha già dato il semaforo verde ma più formalmente che altro. Vertice istituzionale o meno, non è affatto detto che dal vertice di oggi esca una decisione. Al contrario è improbabile, avendo il Cavaliere tutte le intenzioni di tirarla ancora per le lunghe. È difficile che venga sciolto anche il secondo nodo, quello della composizione della lista maggioritaria. Il contenzioso è noto: Giorgia insiste per usare lo stesso criterio del 2018, ripartizione calibrata sugli ultimi sondaggi, quelli che la danno preponderante. I soci preferirebbero fare 'alla romana', un terzo della listone per uno ma spiegare alla numero uno perché quel che andava bene nel 2018, quando lei stentava a raggiungere il 4 per cento, non vada bene anche oggi, quando lei naviga appena sotto il 24 per cento non sarà facile. Anche in questo caso gli alleati prenderanno tempo, il quale tuttavia stringe. Per il 14 agosto le liste devono essere pronte e per approntarle è necessario sciogliere il nodo, in un modo o nell'altro. Si può capire che gli avversari tengano le dita ben intrecciate. Ufficialmente nel suicidio del centrodestra, perché tale sarebbe la fine della coalizione oggi, non ci crede nessuno ma si sa che miracoli esistono e dunque c'è da scommetter che a sinistra il vertice di oggi, e quelli che senza dubbio seguiranno a breve, saranno seguiti senza farsi illusioni ma con un barlume di speranza. Non bisogna però credere che il mercanteggiamento nel centrodestra sia solo una venalissima questione di seggi e poltronissima di palazzo Chigi. Quelli sono elementi reali e che certo hanno tutto il loro peso in sé. Ma sono anche carte che vengono giocate in una partita strategica che guarda già al dopo voto. Se mai Giorgia Meloni avesse avuto dubbi sugli intenti del Pd, il discorso di Letta ieri li ha dissipati. Il segretario del Pd ha posto le cose come se si stesse per andare a elezioni con una legge proporzionale. Non ha affatto insistito sulla coalizione, sulla forza di un'alleanza di programma compatta come si fa di solito in questi casi e che ordinerebbe di fare l'abc della politica. Al contrario, Letta ha prefigurato un'«alleanza elettorale», in concreto nulla più di un espediente tecnico imposto da una legge elettorale balzana, necessario per competere nella quota maggioritaria ma nulla di più. Nulla di vincolante. Nessun impegno e dunque nessun candidato premier comune. Una scelta del genere, così anomala e in apparenza autolesionista, si può interpretare in un modo solo: con l'obiettivo prima di limitare la vittoria prevista della destra, soprattutto al Senato, per poi mettere in campo la candidatura più ovvia in un sistema proporzionale, quella di Mario Draghi, sostenuto anche da una parte della destra. La leader di FdI, per quanto giovane, è una politica già di lunghissimo corso. Il senso della manovra certamente non le sfugge e peraltro si aspettava qualcosa del genere sin da quando i sondaggi hanno iniziato e testimoniare sulla rapidità della propria cavalcata. Per provare a rompere la trappola prima che scatti sa di dover disporre non solo di molti voti ma anche di molti, moltissimi seggi e sa di dover fare il possibile per forzare gli alleati a riconoscere una logica maggioritaria di coalizione, contrapposta a quella proporzionalista sula quale scommette invece Letta. Gli alleati, al contrario, hanno tutto l'interesse nell'evitare che la logica di coalizione, sbandierata in campagna elettorale, sia poi davvero effettiva. Non necessariamente perché mirano a saltare il fosso tornando all'unità nazionale dopo il voto ma perché la disponibilità dei due forni moltiplicherebbe la loro forza contrattuale, a urne chiuse, nei confronti dell'alleata più forte in termini di voti ma strategicamente molto più debole perché priva di agibilità a tutto campo. La posta in gioco, nella partita che il centrodestra inizierà a giocare oggi pomeriggio e che dovrà proseguire per un tempo limitato, è questa.