Draghi ha battuto un colpo e lo ha fatto nel modo più fragoroso possibile. Se sino a due giorni fa c'erano dubbi sulle sue intenzioni oggi quei dubbi sono dissipati: vuole giocare un ruolo di primo piano in Europa. Un ruolo di leader. Nelle anticipazioni del report sulla competitività che sarà reso noto nella sua forma definitiva il 27 giugno (e che andà letto in parallelo a quello di Enrico Letta ed Enrico Giovannini sul mercato europeo) promette di proporre una vera e propria rivoluzione: la rifondazione della Ue. Ma la sua nomina in una postazione chiave sarebbe una rivoluzione di per sé. I capi di Stato, notoriamente gelosi del loro potere, sono sempre stati molto attenti a evitare l'arrivo di una figura forte, tale da ambire a una sinora mai esistita leadership europea. La fisionomia di Mario Draghi, sia per la sua biografia e il ruolo svolto come presidente della Bce, sia perché svincolato dai partiti, corrisponde invece perfettamente a quella leadership allo stesso tempo vacante e ormai necessaria.

I commentatori e i politici già valutano il rischio che Draghi, come già nella corsa per il Colle, abbia svelato le carte troppo presto. La strada è già fitta di ostacoli: uscire allo scoperto con mesi di anticipo rispetto a quando, in settembre, si dovrà indicare prima e votare poi il nuovo presidente della Commissione europea (se non sarà rieletta in luglio l'uscente von der Leyen) darà modo a chi vuole azzoppare subito Draghi il tempo di organizzarsi e preparare la trappola. Draghi è spinto de Macron, quasi esplicitamente, ma i liberali usciranno probabilmente molto indeboliti dalle urne di giugno, anche se il peso specifico della Francia non potrà comunque essere trascurato. Potrebbe contare sull'appoggio del polacco Donald Tusk e sarebbe essenziale perché il primo ostacolo, almeno per quanto riguarda la presidenza della Commissione europea, è l'ipoteca messa su quella poltrona dal Ppe, che sarà confermato primo partito e non ha alcuna intenzione, per ora, di cedere il posto a chicchessia. In questo momento però i polacchi sono determinanti nel Ppe e l'appoggio di Tusk sarebbe essenziale.

L'Italia, come già cinque anni fa nell'elezione di von der Leyen, potrebbe giocare un ruolo decisivo. Si può dire da subito che Giorgia Meloni non abbandonerà l'alleata von der Leyen ma se la presidente uscente verrà fermata o prima del voto o dal voto stesso, come è ormai non solo possibile ma probabile, la premier dovrà fare una scelta difficile. Una leadership europea Draghi la aiuterebbe da moltissimi punti di vista ma se Ursula von der Leyen venisse affondata il candidato in pole position per il Ppe sarebbe, ancor più di Roberta Metsola, l'italiano Tajani. La nomina dell'attuale ministro degli Esteri italiano sarebbe però tombale per Draghi: gli precluderebbe la presidenza non solo della Commissione ma anche del Consiglio europeo, essendo chiaramente impensabile che l'Italia si aggiudichi entrambe le postazioni chiave in Europa. In realtà, nonostante i riflettori puntati solo sulla Commissione, è molto più probabile che Draghi conquisti la guida del Consiglio, dove non ci sono problemi col Ppe. Ma se la Commissione andasse a Tajani farcela diventerebbe impossibile e non a caso il capo dei senatori FdI Toti ieri non sembrava troppo convinto dall'idea di un sostegno tricolore a Supermario, con quel cupo “Attenzione a chi entra papa ed esce cardinale”.

Ma l'analisi tattica della tempistica scelta da Draghi prescinde dall'elemento più rilevante. A differenza dei politici di professione l'ex presidente della Bce non avrebbe alcun interesse a guidare la Commissione o il Consiglio per poi ritrovarsi impastoiato e costretto nei limiti di tutti i suoi predecessori. L'offensiva scatenata con largo anticipo da lui e da Letta mira ad aprire per tempo la partita non sulla eventuale nomina ma sul progetto. La vera difficoltà è questa perché il disegno di SuperMario contrasta frontalmente con i dogmi dei frugali, dunque anche con una parte essenziale dell'establishment tedesco. I giochi tattici attraverso i quali si giocano sempre le partite delle nomine e delle presidenze pesano e non vanno sottovalutati. Ma il fronte decisivo è quello della proposta radicale che l'ex presidente della Bce intende mettere in campo il 27 giugno e che ha già in buona parte anticipato.

Se l'opzione Draghi si concretizzerà, il sommovimento politico in Italia sarà profondo pur se certamente non dichiarato. Il sostegno del Pd è già certo ma anche FdI, dati i rapporti ottimi fra la premier e il suo predecessore ma data anche la convenienza per gli interessi italiani implicita nella strategia draghiana, finirebbe per collocarsi su quella sponda. A differenza della Lega, almeno finché a guidarla sarà Salvini e del M5S. In una certa misura di formerebbero così due fronti trasversali: alla contrapposizione fra centrodestra e opposizione se ne aggiungerebbe un'altra, tra i partiti maggiori legati volenti o nolenti dalla convergenza su fronti essenziali come la politia estera e l'Europa, e forze che a quel punto tornerebbero ad accentuare i caratteri antisistema. Non sarebbe un terremoto ma una modifica significativa nel campo dei rapporti tra aree politiche certamente sì.