«Era una battaglia di principio: non c'è nessuno scontro nella maggioranza». Tajani la mette così e non potrebbe fare diversamente ma la realtà è diversa. Per un'intera giornata Fi ha costretto gli alleati e il governo a fare i salti mortali, a forzare la mano quasi oltre i limiti della correttezza, tanto da sbattere sul muro eretto dallo stesso presidente del Senato La Russa, a vagheggiare un rinvio di 24 ore, necessario per conquistare un voto in più, che sarebbe stato ancora più clamoroso, a implorare gli azzurri di limitare il dissenso senza ottenere garanzie, a trattare con il senatore delle autonomie Patton offrendo un ombrello per Regioni a statuto speciale e Province autonome in cambio di una sua uscita strategica dalla Commissione.

Alla fine il governo ce l'ha fatta grazie al soccorso in extremis di Renzi e al presidente della Commissione Garavaglia, che ha votato in contrasto con la prassi e con il galateo parlamentare. Solo a quel punto gli azzurri, sapendo che comunque avrebbero perso, hanno optato per l'astensione sull'emendamento e per l'uscita dalla Commissione al momento del voto finale. Insomma Fi ha dato battaglia e la ha persa. Ma la sconfitta, in questo caso, è meno rilevante della determinazione con la quale il partito di Tajani ha accettato uno scontro frontale che avrebbe potuto concludersi addirittura con le dimissioni del ministro dell'Economia Giorgetti.

La Forza Italia di questa campagna elettorale non è quella dei mesi successivi alla traumatica scomparsa del gran capo Silvio ma in realtà non è neppure quella, tutto sommato dimessa nonostante Berlusconi fosse ancora vivo e in campo, della campagna per le elezioni politiche del 2022. È un partito per la prima volta da una decina d'anni non più sulla difensiva ma passato all'offensiva, convinto di avere di nuovo il vento dalla propria parte e di potersi imporre già in giugno come secondo partito della coalizione, consapevole di svolgere un ruolo fondamentale e insostituibile nella destra perché unico presidio in grado di offrire sponda e rappresentanza a quella fascia di elettorato moderato che non gradisce le intemperanze truculente di Salvini e rimane molto sospettoso nei confronti delle origini postfasciste di FdI.

In questa offensiva il tentativo di arrembaggio sulla retroattività del superbonus è stato in parte un passo falso perché Fi si è mossa su un terreno oggi più che minato come quello dei conti pubblici ma lo scontro in campo aperto ha comunque siglato il passaggio del partito azzurro da comprimario a coprotagonista. Del resto qualcosa Tajani ha ottenuto: l'ennesimo rinvio dell'entrata in vigore della Supertax è il classico punto della bandiera. L'annuncio che il prossimo 29 maggio

sarà presentata la riforma della giustizia con all'interno la separazione delle carriere è molto di più. Proprio perché tra i soci contraenti dell'alleanza di destra il partito di Arcore era l'anello debole e il parente impoverito nessuno si aspettava che la premier onorasse davvero quell'impegno, a costo di ingaggiare una seconda e ancora più aspra guerra di religione accanto a quella sul premierato, se non nell'ultimo scorcio della legislatura. Troppo tardi perché la presentazione della seconda riforma costituzionale fosse più che un gesto simbolico.

Le cose sono cambiate. In parte proprio perché Fi sembra oggi in grado di reclamare la propria parte, avendo quasi dimostrato di poter sopravvivere a Berlusconi. Ma in parte anche perché per la premier è cambiata la prospettiva e proprio il duello sulla retroattività del dl Superbonus lo dimostra. Il problema con cui il governo sa che dovrà fare i conti di qui alla fine della legislatura è molto più grave di quelli sin qui considerati: l'inadeguatezza del ceto di governo, gli sbarchi in aumento invece che in diminuzione, la guerriglia rumorosa ma inoffensiva di Salvini, le gaffes quasi quotidiane di qualche alto esponente della maggioranza. In un futuro già cominciato la croce sarà una sola: l'assenza di fondi coniugata con la resurrezione di regole europee che Giorgetti ha ammesso due giorni fa essere «molto difficili da rispettare».

Giorgia Meloni è condannata al rigore e non c'è nulla di più minaccioso, sia in termini di consenso che di tenuta delle maggioranze, della micidiale accoppiata assenza di fondi-obbligo di applicare politiche rigoriste. Lo scontro sulle riforme istituzionali, in questo quadro, presenta più vantaggi che svantaggi dal momento che concentra attenzioni e passioni lontano dalla vera ferita aperta: i soldi e il rigore. In questo varco si è rapidamente incuneata Forza Italia, riuscendo a mettere subito in cantiere la sua riforma costituzionale.

Il limite è che la resurrezione del partito azzurro, per ora, si basa solo su sensazioni e su sondaggi estemporanei, la cui affidabilità è per definizione dubbia. Per provare a tornare protagonista Fi deve aspettare che quella sensazione sia suffragata e quantificata dai risultati del prossimo 9 giugno.